Una sorta di scrigno dai contenuti letterari, poetici, fotografici. Un diario dei pensieri e delle collaborazioni artistiche di Lila Ria, Ilaria Pamio
sabato 19 settembre 2015
Amy - The Girl Behind the Name
Il 15/16/17 Settembre nelle sale proiettavano "Amy - The girl Behind the Name" (il documentario sulla cantante Amy Winehouse). Sono andata a vederlo, con le mie sorelle Sara e Federica e mia mamma, la Lella.
Probabilmente è vero che era una ragazza fragile, o non avrebbe sposato lo stronzo che l'ha iniziata alle droghe pesanti. Però aveva una madre inesistente, che non ha reagito al suo dirle (a 13 anni) "mamma! so come abbuffarmi e non mettere su peso". E un bastardo per padre, che (fino all'ultimo) l'ha spinta a non cancellare date dei concerti, a discapito della sua salute, della possibilità di essere riabilitata.
Conoscevo solo qualche canzone - grazie alle mie sorelle. Ieri sera, il documentario, mi ha sconvolta. Per la cattiveria, il menefreghismo della gente che la circondava.
Aveva solo una bellissima voce, un cuore troppo grande ed era terrorizzata dall'idea di, un giorno, fare successo.
"Non scrivo/ non canto testi per tutti, non sarò mai famosa" disse, non ricordo a chi, a 18 anni.
"Non m'interessa niente della gente, m'interessa solo che mi lascino stare". "Se canterai in mezzo a tanta gente, non sarai lasciata stare". "Alla gente interesserà solo la mia musica".
Tante immagini mi hanno colpita. Non quelle in cui beveva più di un uomo. Non quelle di lei col braccio fasciato, perchè si era tagliata per emulare suo marito. Peggio di tutte è stata vederla vincere a un Grammy Awards, premiata da Tony Bennet (col quale, poi, canterà in un disco), vestita benissimo, attonita, senza parole. Le riprese attorno a lei, lei che cammina tra il pubblico che quasi la soffoca, lei che corre sugli scalini e sembra si butti sul palco.
Le immagini di lei felice, senza alcun tipo di droga, su un'isola non ricordo dove e il padre che la raggiunge, con una troupe televisiva e la riprende ogni cosa lei faccia.
I suoi occhi sinceri, il viso dolce, il suo essere tenera e poi acida. Il suo trattare le amiche come se fossero la cosa più importante del mondo e ignorarle completamente poco dopo.
Pensavo fosse una bella ragazza, con una gran bella voce. Non immaginavo tutto quello che portava dentro.
Non avevo capito un cazzo.
lunedì 14 settembre 2015
HO REALIZZATO UN SOGNO: SONO STATA A NEW YORK!
Dormii solo cinque ore quella notte. Ci fu un temporale con grandine fino alle due e alle sette ero già sveglia. Il giorno prima era stato cancellato il nostro volo e così Antonio, Ottavia e io ci rifacemmo accompagnare nei nostri letti. Il 5 Settembre saremmo ripartiti alle ore quattordici, ma alle otto mi schiodai dal letto, feci colazione e mi buttai sul divano. La valigia e la borsa erano pronte dal giorno prima, fummo riaccompagnati a Malpensa e imbarcati sull’A380 di Emirates. Nelle sette ore e mezza di viaggio guardai tre film, due in inglese e uno in italiano, ci fecero pranzare e, anche se cercai di appisolarmi, l’emozione era troppa e restai sveglia tutto il tempo. All’aeroporto JFK prendemmo un taxi che ci condusse al nostro hotel a Manhattan, in Nassau Street, vicina alla St Paul Chapel e al World Trade Center.
La stanza era abbastanza piccola, la porta del bagno, aperta, distava pochi millimetri dal bordo del wc e la doccia era piuttosto grande. Dalla finestra vedevi l’interno degli uffici e, in lontananza, lo Start at One Observatory.
Non riuscii a uscire quella sera e mi addormentai all’1:30 per poi risvegliarmi alle 3:30 con una gran voglia di far colazione (in Italia sarebbero state le 9:30). La mattina verso le 8:00 ci preparammo, mangiammo un croissant ultra unto e burroso in hotel e decidemmo di prendere il Big Bus Hop On Hop Off: pessima idea! Non si vedeva nulla da lì e scendemmo al Guggenheim.
Dopo aver trascorso quasi un’ora inscatolati nel bus con un’irritante speaker che rideva come se fosse drogata, finalmente eravamo all’aria aperta, in mezzo alla gente. Ne ammirammo l’armoniosa architettura tondeggiante dall’esterno, dopodiché attraversammo la strada e decidemmo di fare un giro a Central Park. Scoppiamo a ridere. Ci sembrava incredibile.
La distesa d’acqua sulla nostra destra, le persone che correvano, oppure prendevano il sole distese nell’erba alla nostra sinistra, la tartaruga che nuotava in superficie e poi giù, l’anatra, i grattacieli sullo sfondo.
In lontananza qualcuno suona jazz. Lasciato Central Park trovammo il Metropolitan Museum
i baracchini con lo street food il cui odore ti si appiccica alla faccia e ai capelli
un gruppo di giovanissime spose, sposi e damigelle che saltellano al comando di una fotografa con i capelli azzurri.
Poco più avanti un cantante di strada vede che gli sto facendo un video, mi si avvicina e mi dedica Endless Love e mi sento gli occhi del pubblico addosso e i capelli che si bagnano al contatto con la nuca.
Proseguendo verso Rockefeller Center, mentre mangio un brezel, una signora bionda mi si avvicina “It’s funny!” mi dice. E poi indica i miei occhiali da sole colorati e tira fuori dalla borsa un paio di occhiali da vista col bordo giallo e le astine azzurre, come i miei. In pochi secondi di ascensore raggiungiamo il 67esimo piano. Appena le porte si aprono, una ragazza ci accoglie gridando e aprendo le braccia “Benvenuti! Eccovi al Top Of The rock! Divertitevi” e attorno a noi, come noi, persone che guardano New York dall’alto e fotografano le diverse vedute.
Dopo aver preso nuovamente la metro ed esserci fatti una doccia, abbiamo chiamato un taxi per recarci al ristorante "GIANO" dove ci attendeva il proprietario Paolo (amico, ex collega di Ottavia) che da vent'anni si è trasferito a New York, e la compagna Roberta che mi ha dato diverse dritte su dove mangiare a mezzogiorno e negozi per lo shopping dell'ultimo giorno. Un locale molto carino, accogliente, una cena fantastica, conclusa con un dolce, a sorpresa, al cioccolato fondente, con il cuore morbido e attorno la glassa ai lamponi.
[Il pacchettino davanti a me è la metà del dolce avanzata, avevo mangiato troppo!, che ho gustato per colazione la mattina dopo.]
Rientrando in hotel la mia attenzione viene catturata dal Red Cube di Isamu Noguchi, in Wall Street.
Il giorno successivo prendiamo il battello per la Statua della libertà. Il giro dura un’ora e, con il vento tra i capelli, possiamo ammirare un’altra prospettiva di New York. Il battello si avvicina per consentirci di fare le foto: forse me l’aspettavo più grande la Statua.
Scendiamo intorno alle due e prendiamo un altro battello per il museo di Ellis Island. Lì giungevano gli immigrati che erano poi sottoposti a una serie di controlli, prima di poter entrare in territorio americano. Intorno alle diciassette ci siamo fermati in un ristorante in cui ci hanno servito un piatto di pesce crudo.
Attorno a noi gente che mangiava gelato, sandwich, patatine e panini col tonno. Rientrando a casa, incontriamo Fabio, una guardia di origine italiana che parla solo inglese e ha solamente due denti in bocca. Ci consiglia di visitare Ground Zero e il museo dell’11/9.
L'indomani propongo di andare all’High Line, la sopraelevata che hanno costruito sopra una vecchia ferrovia. Ci sono diversi artisti e gente che legge, scrive, disegna. Il sole è caldo e decidiamo di toglierci le scarpe e camminare nell’acqua.
[chiunque poteva costruirne un pezzetto, con i lego bianchi]
Prendiamo l’ascensore con le luci interne verdi, e siamo di nuovo in strada.
In
lontananza c’è l’Empire State Building.
Passiamo
dal Madison Square Garden c’è gente seduta ai tavolini o sulle scale intenta a
guardare gli Us Open Mladenovic – Vinci,
prendiamo
la metro a Penn Station e una signora con le cuffie gialle fosforescenti mi
dice che ho degli occhiali molto cool e mi chiede dove li ho comprati
<<Zara, Milan, eighteen dollars, very cheap!>> rido.
Dal fondo della metro, un uomo canta
“In the jungle, the mighty jungle
The lion sleeps tonight
In the jungle the quiet jungle
The lion sleeps tonight”
The lion sleeps tonight
In the jungle the quiet jungle
The lion sleeps tonight”
e quattro persone che lo seguono a trenino
fanno il coretto
“(A-weema-weh, a-weema-weh, a-weema-weh, a-weema-weh)
(A-weema-weh, a-weema-weh, a-weema-weh, a-weema-weh)”
(A-weema-weh, a-weema-weh, a-weema-weh, a-weema-weh)”
Al
museo del 11/9 l’emozione è grande.
A volte devo distogliere lo sguardo o proseguire oltre. Ci sono i visi di tutte le persone che hanno perso la vita e altri quadretti di persone mai trovate. Non riesco a guardare i video, m’impressionano le voci che gridano terrorizzate, le richieste di aiuto.
[la moto donata ai vigili del fuoco]
La
sera vengo accontentata: andiamo a mangiare sushi, la prima volta in sessantatre
anni per Antonio e Ottavia,
poi attraversiamo il parco di Green Street e percorriamo l’affollato ponte di Brooklyn in notturna.
Tutto questo è stato irreale. Molto più di quello che
potessi sognare.
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