sabato 28 febbraio 2009

{Londra chiAma Ilaria}

La sua gamba ballava ticchettosa sul pavimento. Come se da quel suo gesto dipendesse o meno l’arrivo del vecchio ascensore arrugginito. Il rumore ruvido delle congiunzioni rimbombò su tutto il pianerottolo. Come un avvertimento, evita di prendermi. Lei salì, al volo. Come ai tempi del liceo saliva sul pullman per andare a scuola, sempre in ritardo. Le porte si chiusero. Schiacciò “T” terra.
Le urla sue e del suo ragazzo avevano invaso tutto il piano, fino a dieci minuti prima. Suoni distorti, vociare confuso, solo due frasi ben scandite:
-Non sai parlare Sara! Non sai parlare! Parla con me! Dimmi cosa pensi
-Ma vattene affanculo.
E poi la porta sbatté forte. E lei scese in strada. Coi suoi jeans non stirati e con l’elastico messo di fretta attorno ai capelli, in una sorta di cipolla.
Sbuffò e riempì i polmoni d’aria, come a dirsi calma, ragiona. E infilò le sue mani nella pochette alla ricerca del cellulare, compose il 4563 e chiamò un taxi.
-Mi può venire a prendere?
-Dove si trova?
-abito ad East Croydon. Zona 25. A cinque minuti dalla stazione. Sono una ragazza bionda, magra, con una borsetta viola.
Le automobili le stavano scorrendo davanti. Microrganismi nel marasma del traffico londinese.
Il tassinaro arrivò col suo macchinone stile God Save The Queen Elisabeth. La riconobbe già quando svoltò la curva. Si fermò proprio davanti alle sue adidas fuxia, facendo stridere i freni di quello scatolone nero con l’apertura al contrario, come le auto di altre epoche.
Lei si accomodò sul sedile posteriore.
-Salve. Mi accompagna alla stazione, per favore?
L’uomo magro coi capelli corti grigi e un cappellino cercò gli occhi di lei nello specchietto retrovisore
-Che treno deve prendere signorina?
-Non lo so. Il primo che arriva.
Dava come l’impressione di essere una che stava fuggendo. Lasciando definitivamente Londra. E, magari, una vita per la quale aveva combattuto, nonostante i se e i ma di sua madre e del mondo.
Era talmente arrabbiata, che non riusciva nemmeno a piangere. Il suo corpo si rifiutava di avere ogni minimo sussulto per quello che era stato il suo convivente, ormai da due anni. Un record da guinnes dei primati per una abituata a relazioni da tre/quattro mesi con ventotto pause nel mezzo.
Li avevano dati per predestinati. Quella volta che si erano incontrati per strada a Milano e lui le aveva chiesto “ti va un caffè?” e lei aveva visto quegli occhi da bambino in quel corpo vissuto e gli aveva detto “perché no”. E gli amici di lui l’avevano scambiata per la sua ragazza, lui le aveva strizzato l’occhio e gli avevano lasciato lo credessero. Poi lei gli aveva chiesto il numero di cellulare, si erano mandati sms per una settimana, e dopo 6 giorni condividevano lo stesso letto nella stanza di quel motel che c’è prima dell’ingresso in autostrada. Tra lenzuola blu a fiori grandi e grida di donne assatanate.
E poi… lui l’aveva guardata con la sua faccia a forma di triangolo capovolto. Le disse era stanco di viaggiare, di non avere una vita stabile e le chiese di andare con lui a vivere. A milano, in un monolocale grigio all’ottavo piano. In uno di quei buchi all’interno di quegli agglomerati giganteschi con milioni di antennine all’esterno e nessun balcone per stendere i panni.
Poi lui non ce l’aveva fatta a restare fermo
-Mi opprime questa vita. Le solite facce. La solita gente
-Ma se non usciamo mai?
-E’ che qui non mi va di uscire. All’aria aperta mi sento soffocare. Ho bisogno di un paese libero, vieni con me a Londra bambina, per piacere
E lei l’aveva inseguito. Di nuovo. Perché quando lui le toccava le mani era in grado di farle sentire le scosse lungo la schiena. Perché lui le diceva questo è amore e lei voleva credergli.
Ma ora era lei quella che stava fuggendo, e scappava da lui, dai loro litigi a sensi opposti.
L’uomo magro che stava al volante la stava sballottando di qua e di là sul sedile. Stava facendo uno slalom tra le macchine in doppia fila. L’acqua cadeva del cielo investendoti. Se guardavi oltre il finestrino, potevi vedere uomini vestiti di tutto punto in bicicletta con le mollette ai pantaloni e un ombrello gigantesco. Donne con gonne leggerissime che attraversavano la strada con capelli nuovi di parrucchiere e nemmeno un ombrello.
Dopo pochi minuti, l’uomo distinto inchiodò alle porte di quella stazione zeppa di gente.
-Oddio non ho nemmeno un ombrello, si lasciò scappare dalla bocca
-Signorina, rise l’autista, sfottendola. Siamo a Londra. Bisognerebbe sempre avere con sé un ombrello
-E’ gentilissimo lei, sa?
Lei mise di nuovo le mani nella sua borsetta, stava cercando i soldi per la corsa. Contò con le dita sul palmo della mano 75 pounds, e glieli posò sulla sua mano rinsecchita
-Buona giornata
-Buon viaggio signorina, ovunque lei vada. Sarcastico.
Si guardò attorno. Di fronte a lei c’erano dei maxi computer appoggiati su delle colonne gialle. Avrebbe dovuto digitare qualcosa. Inserire delle monete. Fare il biglietto, salire su un treno. Il primo che arrivava per londra. Poi avrebbe preso una aereo per milano e avrebbe chiamato uno dei suoi amici per farsi riportare a varese.
C’era una coda infinita di persone davanti a lei. Persone di tutti i tipi. Signore con vestiti eleganti e rossetti volgari, ragazze punk coi capelli dai colori artificiali, ragazzi mulatti con jeans Armani, ragazzi biondissimi coi capelli quasi bianchi. Si mise in coda. Era la quarta della fila. Un vociare intenso tutt’attorno. Sei poliziotti accerchiarono un ragazzo di colore con un ombrellino rosa in mano. Lo stavano intimando “apri le gambe, allarga le braccia, taci” lo stavano tastando. In mezzo alla gente! La gente gli scorreva a fianco. Senza fermarsi. Lei era ’unica che lo guardava. L’unica che sembrava essersi accorta della cosa.
Una bimba coi capelli lunghi e il vestitino rosso gli passò accanto. La vocina la distrasse
-Guarda mum. Abbiamo lo stesso ombrello!
-Si si. …le aveva risposto lei sfuggevole. Del resto era una di quelle col tailleur. Probabilmente era di corsa per una riunione. O forse boh.
-Sorry… La voce acuta della vecchietta in coda dietro di lei la scosse.
-Excuse me…
Ora era lei quella davanti allo schermo giallo. Cercò tra gli spazi vuoti della borsetta se aveva qualche moneta. Ne trovò un paio. Le infilò nella fessura e digitò la destinazione del suo biglietto. La macchinetta le fece scivolare tra la mano il pezzetto di cartoncino e lei se lo mise in una delle tasche posteriori dei jeans.
Drrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrriiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiin. Driiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiin. Sentì una vibrazione sotto l’avambraccio. Aveva la suoneria bassissima. Guardò lo schermo “Frank”. Poi guardò di nuovo “sei chiamate senza risposta”. Nel casino totale non aveva sentito il telefono, ma non le importava. Lo ripose nella borsetta.
-A volte è un bambino assillante, non lo sopporto! Aveva detto lei alle amiche
-Ma di che ti lamenti Ila? È così teneeeeeeeeeeero. E poi sembra Grignani
-Solo perché ha i capelli lunghi. Non assomiglia a Grignani, ha gli occhi chiari
-Comunque è carino… Vorrei anche io un ragazzo così
-Guarda l’ho ordinato su un catalogo on line. Basta che digiti 35enni, dotati, occhi azzurri e voilà. Magari aggiungici immaturi e con problemi psichiatrici. E ne hai uno uguale al mio. Pronto, bello, da portarti a casa.
Questa volta decise che non gli avrebbe risposto. Lui non l’avrebbe inseguita di corsa, come le altre volte. Era bloccato a letto con un’anca che gli faceva male. Lo rendeva nevrotico.
Drrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrriiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiin. Drrrrrrrrrrrrrrrrrrrriiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiin. Mani nella borsetta. Sguardo allo schermo. “Frank”. Di nuovo.
Lo ripose nella borsetta. Chiuse il bottoncino col click.
Si diresse verso l’uscita della biglietteria. Passò la porta. Una discesa di quaranta portava ai treni. Lasciò scivolare la mano sinistra sul corrimano blu. La vernice le sarebbe rimasta appiccicata sul palmo insieme al nero della sporcizia.
Accanto a lei correvano uomini con la valigetta. Di fianco a loro c’erano cartelli grandi come schermi dei cinema con scritto “pericoloso. Vietato correre”. Sollevò gli occhi al cielo. Voleva piangere. Aveva desiderato vivere a Londra. Aveva desiderato Frank. E adesso, come ogni volta, era finita.
Notò una telecamera sopra la sua testa. Ci giocò, fissandola con aria di sfida. “Dai… indovina quanti anni ho?”
Scoppiò in una risata. Sarebbe stato bello fregare una telecamera. Fregare i superespertoni che stan’ dietro i nastri delle telecamere. I CSI londinesi.
Terminò la discesa e si ritrovò in mezzo a cinquantamila persone.
In un angolo, una panchina. Un ragazzo obeso poggiava la testa contro quella della sua ragazza obesa. Le mani di lui nelle mani di lei. Gli occhi chiusi nei loro sogni.
Una ragazza coi dredlock si accorse che li stava guardando. Le sorrise.
-Hai del fumo?
-Mi spiace. Non fumo. Non più.
Abbandonò la coppia di ragazzi felice e s’incamminò ai lati della stazione. Passò accanto alla vetrina di un negozio che vendeva profumi. Le scritte appiccicate con la colla al vetro dicevano “Love and sex in the shower” e lei rise di nuovo. Rise forte. Da sola, con attorno ottomila persone.
Gli schermi in alto lampeggiavano in contemporanea. C’erano stati dei ritardi. A qualche treno era successo qualcosa. Un sacco di corse saltate. Gente che correva come ragni impazziti. Uno dei tipi con la valigetta colpì in faccia un bambino. Fermò la sua folle corse. Si piegò a novanta, la cravatta ricadde davanti agli occhi del bimbo. Gli toccò la faccina “sorry”. Il bimbo pianse, a scoppio ritardato. La madre che non si era accorta di nulla, lo prese in braccio. Lo cullò.
Lei era immobile. Ferma sugli occhi chiari del bimbo. Aveva la stessa espressione di Frank, in una foto vecchia di trentadue anni, in braccio a sua madre.
Prese il biglietto dalla tasca. Lo guardò, lo stracciò. Lo gettò per terra e iniziò a piangere. Da sola. I visi davanti alla sua faccia erano annacquati.
Una vecchina claudicante le si avvicinò
-Cos’hai? Stai male?
-Un po’…è che ho litigato con una persona a cui voglio bene… e sto scappando da lui
-Sei troppo giovane per avere dei rimpianti. Chiama il tuo ragazzo, dagli un’altra chance
-Come sa che è il mio ragazzo?
-Mica sono vecchia per niente…
E se ne andò, accarezzandole un braccio
-Chiamalo.
Si asciugò le lacrime, sbavandosi il mascara sulla faccia. Aprì il bottoncino. Estrasse il cellulare dalla borsetta.
Fece scorrere il menu fino a rubrica: andò alla lettera “F”


(ai miei 14 lettori sinceri, rimasti.
con tanti sorry per la mia latitanza.
ma sto facendo tante cose.
una, era questo raccontino)


(pour la chanson: "Personal Jesus- Depeche Mode"
thankS all'amica Moon)

martedì 10 febbraio 2009

Ceci
n’est pas
une feuille blanche