venerdì 28 febbraio 2014

Sai quelle cose?

"Sai quelle cose?
che dobbiamo un po' tutti sistemare
come pezzi di puzzles mischiati
che non ci danno tregua
e s'innescano nei polsi la notte.

E tu hai le tue foto
e io il mio corpo nudo
che boh. Alla fine non è niente di che.
Insistevi per immortalarlo.
Su quel letto. O l'altro. 

E la mia lingerie sul pavimento lercio,
i tuoi boxer blu sul mio inguine.
Il cibo da fast food, le mani, gli occhi, le lingue, la doccia.

E io che assomiglio a lei.
Bionda in loop. (repeat in Love)"

mercoledì 5 febbraio 2014

Le lumache di Montceau Les Mines

 
Je t’embrasse



  


 "Je n'ai pas beaucoup des mots,
pour toi. Et Gaetano.
Je veuille seulement rappeler son souri
dans votre cuisine.
Je veuille rappeler ses yeux,
quand il me regardait dans celle hiver froid
que mes jambes peinaient à marcher
dans la neige et devant l'èglise.
Et je serais ainsi heureuse! Parce que...
étaient beaucoup d'année qui nous ne voyons pas 
et il y avait tu.
Et il y avait Zio Gaetano. 
Et il y avait les couronnes, les gateaux, les limaces!
(Mon dieu! très bonnes! Très très très très!) 
Et il y avait ton bouillon si chaud et dense 
et tous ces fromages, que je ne peux pas manger 
tes merveilleux cheveux rouge
Tes yeux, le lit du Zio Gaetano, sa "voiture" (la carrozzina), sa voix 
et le pc, vos petits-enfants
et ton ventre vide 
mes cheveux long et ma veuille d'aller voie!
je ne vous l'ai pas dit. mais vous avez été ma voie de fuite, alors.
Maintenant je voudrais être un petit peu la tienne." (25 Febbraio 2013)






Inverno. Il solo pronunciare questo vocabolo mi fa sentire come se fossi rinchiusa in una grotta di ghiaccio. È che io soffro il freddo! Potreste dire <<te credo! Sei talmente magra che qualsiasi persona, al tuo posto sentirebbe freddo>>. Ma non è solo questo. Sono le giornate corte, la poca luce, il non aver voglia di fare nulla, il sentirsi perennemente letargica e il bisogno continuo di stare sotto il piumone fino a tardi. Eh sì, beh… poi c’è anche il freddo che ti entra nelle ossa. Il non riuscire a scaldarti se non con due maglioni, la calzamaglia di cotone pesante sotto la gonna, l’antiestetico naso rosso e il perpetuo tuo dire <<entriamo da qualche parte a berci qualcosa? Sto gelando di freddo>>.
La stagione che preferisco è l’estate. Ma sto bene anche in primavera. Meno indumenti addosso, la pelle chiara più colorita, la voglia d’uscire, gli aperitivi due o tre volte a settimana, le feste nei locali all’aperto, i piedi nudi nella sabbia e, quando riesco ad andarci, il mare, le nuotate, le mangiate di pesce al ristorante sulla spiaggia, le gambe scoperte, i sandali, l’illusione di riuscire, per un po’, a evadere.

Uno degli inverni più freddi, ma anche, tra i più belli che io ricordi, lo trascorsi quando andai un paio di giorni in Francia, nella Borgogna, a trovare i miei zii che abitano a Montceau les Mines. Da diversi anni loro erano impossibilitati a recarsi a Varese. Le condizioni di salute di Zio Gaetano si erano aggravate e Zia Marie che, per anni, si era adoperata per accompagnarlo in auto e condurlo a casa della nonna Margherita, non se la sentiva più di compiere il tragitto da sola.
Quando loro arrivavano a casa della nonna, erano ospitati al piano di sopra, dove abita zia Maria. Lì avevano una stanza matrimoniale e un bagno solo per loro. Per i pranzi e le cene, invece, restavano dalla nonna ed era un vai e vieni di parenti, che passavano a salutarli. Tra questi c’eravamo noi.
La nonna è sempre stata un’ottima cuoca, la ricordo con dei grembiuli fiorati, che si cuciva da sola
<<perché sono grassa>>, si scusava. Perché era una brava sarta, pensavo io.
Uno dei suoi piatti speciali erano gli gnocchi. E io glieli rubavo da crudi. Mentre lei era intenta a tramutare quelle bisce di pasta in quadratini. E in quegli gnocchi crudi c’erano già il burro e il grana. E mi rimproverava sempre <<non ti fanno bene! Aspetta che li butti in acqua>>.

Finito di pranzare, chiacchieravamo un po’. E quando gli zii, stanchi, andavano a riposarsi al piano superiore, la nonna si lasciava cadere per un po’ sulla poltrona in sala, mentre mamma e papà riordinavano la cucina, e io andavo a rifugiarmi in camera sua, nel lettone.
Una voce bassa alla radio trasmetteva sempre quelle piccole preghiere. Io guardavo le madonnine in ordine, in quella cunetta sopra la specchiera. Ne sceglievo una, le toglievo la coroncina, mi bagnavo con la sua acqua e pensavo che sarei diventata buona.
Mi buttavo a pelle d’orso e mi addormentavo. Sognavo bambini con i capelli sottili
azzurri come il cielo, quando respiri gioia. Sognavo torte di mele, la carezza stanca di mio padre, al ritorno dal lavoro. Prima che dormissi.

Quando andai a trovare gli zii in Francia, la nonna non c’era più da sei anni. Era la prima volta che andavamo da loro. Un viaggio piuttosto stancante, di otto ore.
Appena arrivati all’hotel, a Montceau, io e mia sorella ci stendemmo un po’ sull’enorme letto matrimoniale. In quella stanza violetta c’erano un bel calduccio e un gradevole profumo sprigionato dai fiori secchi contenuti nella scatola adagiata sul ripiano della scrivania.
Trascorsa un’oretta, dal nostro arrivo, gli zii ci contattarono telefonicamente chiedendoci per che ora saremmo arrivati.
Decidemmo di non farli attendere. Ci cambiammo, ci truccammo e, una volta pronti, ci recammo presso la loro abitazione.
La Zia Marie è una donna bellissima. Con un sorriso immenso e i lunghi capelli rossi, acconciati come le donne di un tempo. È una donna magnifica, forte e combattiva. Una donna che non si lascia scoraggiare da nulla, positiva e gioiosa. Fu molto felice di vedere me e mia sorella. E, non appena entrammo in casa, ci abbracciò molto forte.
Zio Gaetano, da principio, non mi riconobbe. Mi chiamò col nome di mia sorella. Ma erano tantissimi anni che non ci vedevamo. E lui, era già molto anziano. Dieci anni di più, della zia.

Si erano conosciuti quando lei aveva quindici anni e lui venticinque. Lui si recò in Francia nell’ottobre 1948, quando l’Italia era in crisi ed era senza lavoro. In Francia assumevano gli stranieri, ma per avere una carta di soggiorno e una residenza occorreva che ci fosse qualcuno disposto ad accoglierti.
Nel caso di Zio Gaetano, fu Maman che lo accolse. Era la cugina di Zio Gaetano ed era in Francia dal 1930, trasferitasi dopo aver sposato, a Massanzago, il padre di Zia Marie. Quest’ultimo lavorava alla miniera di Montceau dal 1923 e già era riuscito a far avere un lavoro ad Angelo e a Gerolamo - detto Momi - , fratelli della nonna e di Zio Gaetano.
Dato che il papà di Zio Gaetano e il padre di Maman erano fratelli, Zio Gaetano e Zia Marie erano cugini di terzo grado! Pertanto, nessuna complicazione per lo sposarsi.
Quando si conobbero, mai avrebbero immaginato che, tre anni dopo, il loro idillio, come l’ha definito mia Zia Marie, sarebbe iniziato.
Zio Gaetano non fu assunto per fare il lavoro che sperava. A Padova era meccanico, ma, quando iniziò a non essere più pagato, si adattò a lavorare come minatore, cinque anni nella galleria e i successivi venticinque si occupò della manutenzione dell’ascensore che occorreva per far scendere in miniera i lavoratori e i materiali. Ed era un lavoro notturno.
La Zia, invece, si diplomò a quattordici anni. Poi seguì dei corsi di cucito e di cucina, ma sognava di fare la parrucchiera. Non trovando altra occupazione, lavorò tre anni in officina, e quando decisero di sposarsi, di comune accordo stabilirono che lei dovesse lasciare il lavoro.
Si sposarono quando la Zia aveva vent’anni. Diventarono genitori due e quattro anni dopo. Nel 1955 nacque Maryline, che ora abita vicino a Montpellier e nel 1957 nacque David che si è trasferito a Pierrevert, vicino a Manosque.

La lontananza dai figli e la paralisi dello Zio, subentrata nel 1998, incoraggiarono la Zia all’utilizzo di Skype. Appena entrai in casa loro, vidi che, in cucina, accanto al frigorifero, c’era un pc acceso. Mi spiegò che aveva fatto dei corsi e aveva imparato a sessantacinque anni a utilizzarlo, per mantenersi in contatto con i figli, vedere video dei nipoti, scambiare foto.
La Zia sembrava essere sempre la stessa. Lo Zio, invece, era ingrassato rispetto all’ultima volta che lo vidi. Credo fossero i medicinali che era costretto ad assumere, a causa della malattia. Anche lui, nel vederci, era felicissimo. Sorrise molto, rise. E la risata era identica a quella che faceva la nonna Margherita. Anche l’espressione del suo viso quando pensava o il modo di approcciarti che aveva, erano uguali a quelli della sorella.



La prima sera Zia Marie ci cucinò una minestra di pollo con un brodo denso, molto grasso e saporito, delle verdure e del bollito. Ci guardava, ci serviva, ma dall’emozione non riuscii a toccare cibo. Ci raccontò poi, che i piatti che c’erano in tavola erano quelli del suo matrimonio e le posate d’argento erano soliti usarle per le occasioni molto speciali Chiudemmo la cena con un caffè e, esausti per la giornata, andammo a letto.
L’indomani decidemmo di farci una passeggiata al Monastero di Cluny, famoso per l’Abazia distrutta durante la Rivoluzione, della quale rimasero solo alcune tracce, come la pianta originaria con la pavimentazione molto particolare e il vasto monastero con un grande giardino, in cui erano presenti strutture dell’epoca stessa, alcuni capitelli e la cappella di Giovanni di Borbone. 



Quel giorno il freddo ti tagliava la faccia e le ginocchia.
Aveva nevicato moltissimo e per le strade non c’era nessuno. Cercammo riparo tra il calore di una Confiserie, caffetteria tipicamente francese, che aveva in vetrina diverse torte e caramelle giganti. Ci rimettemmo in auto e alzammo il riscaldamento. La temperatura all’esterno era di meno otto gradi.












Quando passammo davanti alla “Pharmacie L’abbaye”, addobbata per il Natale trascorso da poco, un Babbo Natale si stava arrampicando sul muro, in direzione della finestra al piano superiore.
Rientrammo verso le cinque del pomeriggio, ci facemmo una doccia, guardammo un po’ la televisione e poi andammo a casa degli Zii.
La Zia apparecchiò la tavola come la sera prima, ma, questa volta, mangiò anche lei con noi. C’erano numerosissimi antipasti. Salumi, formaggi, sottaceti e poi, il pezzo forte: le lumache. Portò in tavola una pirofila piena di ciotoline piccolissime di ceramica. Ognuna contenente una lumaca. Assaporare la prima fu difficile. Aveva un odore abbastanza forte. Di aglio e di una qualche erba. Non le avevo mai assaggiate prima e l’idea di infilarmi quella cosa molle in bocca faceva sì che la mia mano facesse avanti e indietro dalla bocca, per tre volte. La quarta mi decisi, mi feci coraggio e, dopo averla messa in bocca, l’assaporai con la lingua e poi la morsicai. Buona! Allora mi affrettai a prenderne altre, prima che le finissero i miei.


A fine cena la Zia portò in tavola la Tarte des Rois. Ne tagliò sei fette e ci avvertì di mangiarla piano, perché avremmo potuto trovare qualcosa dentro. Io e mia sorella, infatti, trovammo, all’interno delle nostre fette, dei “pupazzini di buon auspicio”. Fummo incoronate con due diademi di carta, che ci furono chiesti in prestito dal papà e dallo Zio, per fare foto ricordo. Per ridere, in quella bella serata tutti insieme.



 


Il giorno successivo la temperatura era gelida come il giorno precedente. Prima di rientrare a Varese, visitammo la comunità di Taizè, fondata nel 1940 da frère Roger che ospita, al suo interno, diverse comunità religiose, non solo cristiane, ma anche mussulmane, induiste, ecc. e raccoglie ogni anno i giovani che arrivano da tutte le parti del mondo.

Questo viaggio fu l’ultima boccata d’aria che chiesi al mio ex capo. Da lì a un paio di mesi, mi licenziai da un posto in cui lavoravo da sette anni e mezzo. E, prima che finisse l’anno, mi licenziai da un altro posto, in cui lavoravo da sette mesi. La testa stava scoppiando, non dormivo, dimagrii diversi chili.

Credetti quella fosse la scelta migliore. Prendermi un po’ di pausa da tutto. Anche se in un periodo di crisi. Anche se avevo lasciato due posti a tempo indeterminato. E poi? Cosa avrei fatto poi?
Quello non potevo saperlo. Nell’immediato futuro ci sarebbe stato un viaggio in montagna con i miei amici. La mia prima volta sulla seggiovia. E ci sarebbero state tante notti in cui avrei recuperato il sonno perso negli ultimi sette mesi. E tanti risvegli col gorgoglio leggero della moka e il profumo diffuso per la casa del caffè.
Quel caffè che amo. E che la mia nonna, quando ero bambina, mi faceva assaggiare dalla punta del suo cucchiaino.
 



(altri aneddoti, li trovate qui - sulla mia pagina fb -)