martedì 17 novembre 2015

Trovarsi a trenta centimetri da Manuel Agnelli che ti sorride e non riuscire nemmeno a dirgli "ciao!"


Ieri sera c'ero anche io a Milano. In un locale di cui non faccio il nome

perché non merita pubblicità un posto a cui avevo chiesto com'era l'accessibilità (ci sono gradini? No, al massimo poi l'aiutiamo noi/ arrivo, c'è un gradino - piuttoto alto - mi presento al titolare, che mi dice: "quando arriva la ragazza disabile l'aiutiamo"/ "sono io la ragazza disabile" / "come è lei? io disabile intendo uno in carrozzina" e la pianto qui, per far capire il livello, la bassezza, del non saper nemmeno dire "mi scusi, ho frainteso, nonostante lei mi avesse detto "deambulo autonomamente", perchè forse non sapeva qual è il significato...)

per la serata promossa da Lifegate, in cui (nella seconda parte) c'era Manuel Agnelli, con quella sorta di biografia, raccolta d'interviste "senza appartenere a niente mai", scritta da Federico Guglielmi.
Quest'anno è la seconda volta che vedo Manuel Agnelli dal vivo (la prima ero a Gallarate e parlai QUI CLICK!) e, mentre nell'altra occasione mi sono sentita il cuore uscirmi dal petto quando lui è sceso dalla scalinata accanto a dov'ero seduta, ieri mi sono trovata con la faccia a trenta centimetri dalla sua, che sorrideva, dopo che un goffo cameriere mi aveva "aiutata" (sollevandomi a mò di sacco di patate) a fare i due gradini per accedere al bagno disabili, e non sono nemmeno riuscita a dirgli "ciao Manuel! Grazie per i tuoi testi, per la tua musica", ma neanche solo "Ciao". Ero di pietra.




Agnelli ha detto che gli piace molto come sia stato scritto il libro. Che il giornalista che lo ha scritto, raccogliendo tutte le sue interviste, ha avuto coraggio, nell'utilizzare un linguaggio "diretto" e duro (un po' come il suo) anzichè il linguaggio con cui normalmente scrivono i giornalisti, cercando di non sbilanciarsi troppo.


Oltre a raccontare del libro ha anche cantato diversi pezzi, il primo di Bruce Springsteen. La voce di Manuel non tradisce mai. E' forse anche più bella di quella che sentiamo registrata sui cd. E' una forza che lui sembra dover necessariamente buttare fuori.



Durante l'intervista col brioso Ezio Guaitamacchi ha anche asserito che, in italia, se non sei laureato non vieni calcolato. Che devi sempre dimostrare di essere titolato in qualcosa, perché il semplice fatto che tu suoni perché lo senti nella pancia, sembra non avere lo stesso valore. Ha raccontato di aver studiato pianoforte, ma che è troppo impegnativo portarselo appresso nei concerti e che, dopo le prime esperienze musicali, ha preferito dedicarsi alla chitarra che suona (Ezio ha detto "scordata", ma credo fosse ironico!) senza mai avere imparato a farlo.


Agnelli ha svelato di avere un ego molto grande (ma io credo che tutti gli artisti lo abbiano, o non sarebbero artisti), e che il libro lo abbia fatto scrivere per lui, innanzitutto, prima che per gli altri. Ha anche raccontato che, in questi anni ha collaborato con diverse band, perché il fatto di essere a contatto con qualcun'altro di egocentrico, lo mette un pochino in secondo piano, gli fa rivalutare diverse cose che, magari, da solo, non avrebbe considerato. Ha anche detto che la gente sa di te solo quello che dice la tv e la tv dice che sei andato una volta a Sanremo, ma non che hai rinunciato altre tre o quattro volte, perché eri impossibilitato a farlo, avevi altro ma saresti stato invitato.

Purtroppo non ricordo la scaletta dei pezzi fatti. Ricordo solo che l'ultimo brano era "Ballata per la mia piccola iena" e, dopo che si era tolto la chitarra, aveva salutato, c'è stata una fragorosa richiesta di bis e l'artista è risalito sul palco per concludere la serata con  la bellissima "Quello che non c'è". 

(a Vera B., che non c'era)

lunedì 26 ottobre 2015

Omaggio di parole a Jaya Suberg

questo mese ho avuto l'onore di essere stata scelta (con altre dodici voci) per l'OMAGGIO DI PAROLE A JAYA SUBERG

(copio dal sito:
http://wordsocialforum.com/2015/10/26/prospettive-omaggio-di-parole-a-jaya-suberg/ CLICK!!!!)


Jaya Suberg è una nata a Copenaghen nel 1956. Dal 1980 vive e lavora a Berlino, una città la cui vitalità e diversità hanno aiutato a trovare ispirazione per le sue creazioni. Jaya ricrea le sue foto digitali attraverso la pittura o disegno stampato o collages, dando così un’espressione più profonda.

Cliccando sul link di World Social Forum, oltre ai testi di

Anna Tea Salis Romeo Raja Antonella Lucchini Luca Gamberini Tifo Nota  Rosario Campanile Jonathan Varani Doris Emilia Bragagnini DreamOn Rosy Sylvia Pallaracci Cinzia Accetta Guido Mura

Trovate anche il mio, dal titolo "SDOPPIA//ME//NTO" - buona lettura! -

 

“È accaduto di nuovo
quello sdoppiamento del grigio
e un’altra me stessa
mi stava di fronte. Identica e opposta.


Ancora. Ancora quella cosa
quella dannata cosa senza nome:
tu sei due! In un solo corpo.


Il tuo cervello è come se
appartenesse a due te
una che parla, si muove fisica
l’altra che pensa: chi sei tu? Cosa stai blaterando?


E nessuno se ne accorge.
Nessuno. Tranne me.
Che ondeggio spazio/tempo in pochi secondi.”


(Ilaria Pamio, 10 Oct 15 – 18.45)

sabato 3 ottobre 2015

Pois




“E penso ai pois
che anni addietro
detestavo come
le righe dei vestiti o
le divise.

E sono sempre quella
che ero
bloccata
col cuore scalfito
da te.

Che non sai
e riappari ora
con un messaggio
(credo) in risposta
al mio, di notti fa.

Sei anni
sono passati
dal nostro ultimo
allora
e io ero rotta.

Anni fa
come oggi
niente
niente è cambiato.”

(25 Settembre 2015)




sabato 19 settembre 2015

Amy - The Girl Behind the Name


Il 15/16/17 Settembre nelle sale proiettavano "Amy - The girl Behind the Name" (il documentario sulla cantante Amy Winehouse). Sono andata a vederlo, con le mie sorelle Sara e Federica e mia mamma, la Lella.

Probabilmente è vero che era una ragazza fragile, o non avrebbe sposato lo stronzo che l'ha iniziata alle droghe pesanti. Però aveva una madre inesistente, che non ha reagito al suo dirle (a 13 anni) "mamma! so come abbuffarmi e non mettere su peso". E un bastardo per padre, che (fino all'ultimo) l'ha spinta a non cancellare date dei concerti, a discapito della sua salute, della possibilità di essere riabilitata.


Conoscevo solo qualche canzone - grazie alle mie sorelle. Ieri sera, il documentario, mi ha sconvolta. Per la cattiveria, il menefreghismo della gente che la circondava.
Aveva solo una bellissima voce, un cuore troppo grande ed era terrorizzata dall'idea di, un giorno, fare successo.
"Non scrivo/ non canto testi per tutti, non sarò mai famosa" disse, non ricordo a chi, a 18 anni.
"Non m'interessa niente della gente, m'interessa solo che mi lascino stare". "Se canterai in mezzo a tanta gente, non sarai lasciata stare". "Alla gente interesserà solo la mia musica".

Tante immagini mi hanno colpita. Non quelle in cui beveva più di un uomo. Non quelle di lei col braccio fasciato, perchè si era tagliata per emulare suo marito. Peggio di tutte è stata vederla vincere a un Grammy Awards, premiata da Tony Bennet (col quale, poi, canterà in un disco), vestita benissimo, attonita, senza parole. Le riprese attorno a lei, lei che cammina tra il pubblico che quasi la soffoca, lei che corre sugli scalini e sembra si butti sul palco.


Le immagini di lei felice, senza alcun tipo di droga, su un'isola non ricordo dove e il padre che la raggiunge, con una troupe televisiva e la riprende ogni cosa lei faccia.
I suoi occhi sinceri, il viso dolce, il suo essere tenera e poi acida. Il suo trattare le amiche come se fossero la cosa più importante del mondo e ignorarle completamente poco dopo.



Pensavo fosse una bella ragazza, con una gran bella voce. Non immaginavo tutto quello che portava dentro.
Non avevo capito un cazzo.





lunedì 14 settembre 2015

HO REALIZZATO UN SOGNO: SONO STATA A NEW YORK!


Dormii solo cinque ore quella notte. Ci fu un temporale con grandine fino alle due e alle sette ero già sveglia. Il giorno prima era stato cancellato il nostro volo e così Antonio, Ottavia e io ci rifacemmo accompagnare nei nostri letti. Il 5 Settembre saremmo ripartiti alle ore quattordici, ma alle otto mi schiodai dal letto, feci colazione e mi buttai sul divano. La valigia e la borsa erano pronte dal giorno prima, fummo riaccompagnati a Malpensa e imbarcati sull’A380 di Emirates. Nelle sette ore e mezza di viaggio guardai tre film, due in inglese e uno in italiano, ci fecero pranzare e, anche se cercai di appisolarmi, l’emozione era troppa e restai sveglia tutto il tempo. All’aeroporto JFK prendemmo un taxi che ci condusse al nostro hotel a Manhattan, in Nassau Street, vicina alla St Paul Chapel e al World Trade Center. 



La stanza era abbastanza piccola, la porta del bagno, aperta, distava pochi millimetri dal bordo del wc e la doccia era piuttosto grande. Dalla finestra vedevi l’interno degli uffici e, in lontananza, lo Start at One Observatory. 




Non riuscii a uscire quella sera e mi addormentai all’1:30 per poi risvegliarmi alle 3:30 con una gran voglia di far colazione (in Italia sarebbero state le 9:30). La mattina verso le 8:00 ci preparammo, mangiammo un croissant ultra unto e burroso in hotel e decidemmo di prendere il Big Bus Hop On Hop Off: pessima idea! Non si vedeva nulla da lì e scendemmo al Guggenheim. 





Dopo aver trascorso quasi un’ora inscatolati nel bus con un’irritante speaker che rideva come se fosse drogata, finalmente eravamo all’aria aperta, in mezzo alla gente. Ne ammirammo l’armoniosa architettura tondeggiante dall’esterno, dopodiché attraversammo la strada e decidemmo di fare un giro a Central Park. Scoppiamo a ridere. Ci sembrava incredibile. 










La distesa d’acqua sulla nostra destra, le persone che correvano, oppure prendevano il sole distese nell’erba alla nostra sinistra, la tartaruga che nuotava in superficie e poi giù, l’anatra, i grattacieli sullo sfondo.
In lontananza qualcuno suona jazz. Lasciato Central Park trovammo il Metropolitan Museum






i baracchini con lo street food il cui odore ti si appiccica alla faccia e ai capelli




un gruppo di giovanissime spose, sposi e damigelle che saltellano al comando di una fotografa con i capelli azzurri. 







Poco più avanti un cantante di strada vede che gli sto facendo un video, mi si avvicina e mi dedica Endless Love e mi sento gli occhi del pubblico addosso e i capelli che si bagnano al contatto con la nuca.   



Proseguendo verso Rockefeller Center, mentre mangio un brezel, una signora bionda mi si avvicina “It’s funny!” mi dice. E poi indica i miei occhiali da sole colorati e tira fuori dalla borsa un paio di occhiali da vista col bordo giallo e le astine azzurre, come i miei. In pochi secondi di ascensore raggiungiamo il 67esimo piano. Appena le porte si aprono, una ragazza ci accoglie gridando e aprendo le braccia “Benvenuti! Eccovi al Top Of The rock! Divertitevi” e attorno a noi, come noi, persone che guardano New York dall’alto e fotografano le diverse vedute.   







Dopo aver preso nuovamente la metro ed esserci fatti una doccia, abbiamo chiamato un taxi per recarci al ristorante "GIANO" dove ci attendeva il proprietario Paolo (amico, ex collega di Ottavia) che da vent'anni si è trasferito a New York, e la compagna Roberta che mi ha dato diverse dritte su dove mangiare a mezzogiorno e negozi per lo shopping dell'ultimo giorno. Un locale molto carino, accogliente, una cena fantastica, conclusa con un dolce, a sorpresa, al cioccolato fondente, con il cuore morbido e attorno la glassa ai lamponi.
[Il pacchettino davanti a me è la metà del dolce avanzata, avevo mangiato troppo!, che ho gustato per colazione la mattina dopo.]






Rientrando in hotel la mia attenzione viene catturata dal Red Cube di Isamu Noguchi, in Wall Street.




Il giorno successivo prendiamo il battello per la Statua della libertà. Il giro dura un’ora e, con il vento tra i capelli, possiamo ammirare un’altra prospettiva di New York. Il battello si avvicina per consentirci di fare le foto: forse me l’aspettavo più grande la Statua.




Scendiamo intorno alle due e prendiamo un altro battello per il museo di Ellis Island. Lì giungevano gli immigrati che erano poi sottoposti a una serie di controlli, prima di poter entrare in territorio americano. Intorno alle diciassette ci siamo fermati in un ristorante in cui ci hanno servito un piatto di pesce crudo.


Attorno a noi gente che mangiava gelato, sandwich, patatine e panini col tonno. Rientrando a casa, incontriamo Fabio, una guardia di origine italiana che parla solo inglese e ha solamente due denti in bocca. Ci consiglia di visitare Ground Zero e il museo dell’11/9.

L'indomani propongo di andare all’High Line, la sopraelevata che hanno costruito sopra una vecchia ferrovia. Ci sono diversi artisti e gente che legge, scrive, disegna. Il sole è caldo e decidiamo di toglierci le scarpe e camminare nell’acqua. 







 [chiunque poteva costruirne un pezzetto, con i lego bianchi]


Prendiamo l’ascensore con le luci interne verdi, e siamo di nuovo in strada.  




In lontananza c’è l’Empire State Building. 


Passiamo dal Madison Square Garden c’è gente seduta ai tavolini o sulle scale intenta a guardare gli Us Open Mladenovic – Vinci, 








prendiamo la metro a Penn Station e una signora con le cuffie gialle fosforescenti mi dice che ho degli occhiali molto cool e mi chiede dove li ho comprati <<Zara, Milan, eighteen dollars, very cheap!>> rido.


Dal fondo della metro, un uomo canta

“In the jungle, the mighty jungle
The lion sleeps tonight
In the jungle the quiet jungle
The lion sleeps tonight

 e quattro persone che lo seguono a trenino fanno il coretto 

(A-weema-weh, a-weema-weh, a-weema-weh, a-weema-weh)
(A-weema-weh, a-weema-weh, a-weema-weh, a-weema-weh)”



Al museo del 11/9 l’emozione è grande.   




A volte devo distogliere lo sguardo o proseguire oltre. Ci sono i visi di tutte le persone che hanno perso la vita e altri quadretti di persone mai trovate. Non riesco a guardare i video, m’impressionano le voci che gridano terrorizzate, le richieste di aiuto. 











[la moto donata ai vigili del fuoco]



La sera vengo accontentata: andiamo a mangiare sushi, la prima volta in sessantatre anni per Antonio e Ottavia,



poi attraversiamo il parco di Green Street e percorriamo l’affollato ponte di Brooklyn in notturna. 






Tutto questo è stato irreale. Molto più di quello che potessi sognare.