domenica 27 luglio 2008

DIARY OF LONDON-PART 5

DIARY OF LONDON-PART 5
Lunedì 7 Luglio 2008
(Harrods)
Mio zio lunedì mattina doveva lavorare. Io non l’ho sentito alzarsi, né tantomeno venire nella camera dove dormivo io a prendere una camicia tra quelle disposte, nell’armadio di fronte al letto, in ordine cromatico. Spettacolari dal blu al bianco passando per le varie gradazioni di azzurro scuro e azzurro più chiaro.
Il fatto è che a Londra, per la precisione ad East Croydon, andavo a letto talmente stanca e dolorante che il sonno m’abbracciava per l’intera notte catapultandomi in un paradiso di relax da cui la mattina facevo fatica da uscire.
Credo d’aver dormito fino alle undici. E la sera prima non avevo fatto nulla, come al solito.
Terminata la colazione è passato mio zio a prenderci. Saranno state le undici:quaranta e ci ha lasciati in stazione. Come al solito, biglietto, discesina a piedi vietato correre (con immagine d’omino che cade, ma loro corrono lo stesso), treno, Victoria Station, pullman e abbiamo raggiunto Harrods.
Quel giorno pioveva davvero un sacco, a quanto ci disse poi mio zio. E noi, stando in quel centro commerciale per quasi quattro ore, abbiamo trascorso incolumi gran parte dell’acquazzone.
Entrati, un ragazzo di colore con la divisa, mi indica sulla piantina che tengo tra le mani, dove si trova la zona in cui possiamo mangiare. Ogni pizzeria, creperia, ristorante,bar charcuterie, sushi bar hanno degli sgabellini tutt’attorno, per far accomodare le persone fianco a fianco a semi-cerchio. Mia madre decide di non volersi mischiare al resto del popolo, anzi non ha nemmeno più voglia di mangiare. Io e mio padre ci arrangiamo in un altro modo: opto per un muffin al cioccolato e lui per una focaccia alle cipolle e li mangiamo lì! In piedi, appoggiati ad un banchetto.
Ci raggiunge una guardia, che, con fare gentile, ci chiede di uscire fuori a mangiare. La mia riavvolge il nastro dei ricordi e si ferma a otto anni fa. Stessa situazione. Io e un amico che pacatamente fumiamo una Marlboro all’interno del Louvre, accanto a una pianta. Un gruppetto di scolari italiani, che, vedendoci, ha la nostra stessa geniale idea. La guardia che s’avvicina e che, con modi gentili, ci chiede se possiamo uscire.
I prezzi sono limitativi per le mie tasche. Ho guardato un po’ di women’s shoes e womenswear al first floor. Sono andata al quarto per guardare un po’ di women’s fashion. Infine ho deciso fosse meglio andare diretta al ground floor reparto 28 Harrods Souvenirs e comprare qualche posacenere a forma di zampetta di cane, a forma di foglia o lampada d’aladino, borsellino, tazzinine da caffè, due tazze da the, tre confezioni di the, una borsa per mia sorella, un beauty per l’altra, e siamo andati ad ammazzare il conto alla cassa.
Pioveva fortissimo quando siamo usciti. Eppure c’era un ciclista che correva lo stesso come nulla fosse. E ragazzi vestiti di niente che passeggiavano.
Ci siamo rintanati radenti al muro, sotto una tettoia, io accanto a due ragazzetti inglesi che ridevano. Credo avessi un aspetto orribile. Immaginami coi capelli al vento, il kway nero sopra due felpe e la faccia stanca… “Orrible!”
Appena ha smesso un po’ di piovere, abbiamo attraversato la strada e siamo andati a berci una tazza di the. Stare in piedi quattro ore è stato un record per me. Posso capire chi sentendolo dire strabuzza gli occhi, chi non capisce. Dodici anni fa avrei reagito in modo identico. Ma ora sono dall’altra parte della barricata, capisco molte più cose e ho imparato a non incazzarmi, troppo, se gli altri non mi capiscono.
Dopo esserci rifocillati un po’, abbiamo ripreso l’autobus per Victoria Street. Siamo passati da SLOANE STREET, la via dei negozi d’abbigliamento, dove l’unica nota stonata è una gigantografia del Bria, che mi fa vergognare d’essere italiana.
Scesi a Victoria Street c’è un casino. Un casino di gente ferma. Un casino di valigie a terra. Un casino di tabelloni spenti e scritte che scompaiono.
Sono entrata in un negozio che emanava un sacco di profumi diversi, provenienti da bagnoschiuma/saponi/sali da bagno. All’ingresso c’è un cartellone “FREE SEX IN THE SHOWER” e dentro di me sorrido, pensando a (…)
Una ragazza sui vent’anni mi ha sorriso:
“Hi. How are you?”
“Fine”
“xxxgrdkbdvhinbdsfoiyww”
“Sorry? I don’t understand”
“htefgvdsg… buy…kiunfefgt”
“Yes, now I will wach something to buy…”
Ho fatto una gran figura di merda. Mi sono resa conto di non saper nulla d’inglese!
Ero lì dentro, con mia madre, ad annusare i vari pezzi di sapone. Ognuno aveva una frase accanto, un aneddoto. Mi sembra che accanto ad uno ci fosse una curiosità circa Napoleone, che aveva chiesto alla sua amata di non lavarsi, che sarebbe tornato. Ma che se avesse conosciuto quel tipo di sapone, avrebbe cambiato idea.
Mia madre mi dice che forse è meglio che usciamo dal negozio, e cerchiamo mio padre.
Mentre esco c’è della gente che corre veloce nella mia direzione, accanto alla gente ferma nella direzione opposta.
Un uomo sbatte involontariamente la custodia nera dura della sua ventiquattrore sul faccino di un bimbo biondo seduto a terra. Si ferma. Gli dà una carezzina. Il bimbo scoppia a piangere. La madre degenere lo prende in braccio.
Non badiamo alla fila ferma e procediamo verso un treno. Non sono certa sia quello giusto. Non ho controllato il terzo tabellone da destra, ma non mi va di tornare indietro, voglio fidarmi di mio padre. Saliamo. Il treno straripa di persone.
Mio padre chiede a un tipo se ferma ad East Croydon (“Yes”)
io sono in piedi. Mi tengo con entrambe le mani ad una sbarra. Di solito ho sempre trovato il posto a sedere. So che da Victoria ad East Croydon sono circa venti minuti. Posso resistere.
Mio zio mi manda un sms. Gli dico ci siamo! Stiamo arrivando.
Lui si scusa. Mi dice ci sono stati dei disastri, tarderà un attimo.
Vediamo il treno passare da East Croydon, senza fermarsi.
“????!”
“Sorry…” dice l’inglese rivolgendosi a mio padre
telefono a mio zio “Ciao, vai tranquillo. Questo treno è diretto a…”
“Ma come? Cazzo dici? Passami tuo padre…”
Mio padre è incazzato nero. Nella confusione ha sbagliato a guardare il treno.
“Ciao… boh… è un diretto…abbiamo sbagliato a guardare”
“Ma cazzo…Ma come?”
Un signore che parla inglese, ma che non ha nulla a che vedere con gli inglesucci-pc-&-cellulare che ho attorno, mi spiega che, una volta fermo il treno, possiamo prenderne un altro subito che in mezz’ora ci porta ad East Croydon.
Mio padre mi ripassa il cellulare. Mio zio è incazzato.
“Aspetta un attimo” gli dico
Mi rivolgo al tipo che parla inglese “Excuse me sir can you speak with…” e gli porgo il cellulare
Lui mi dice devo mandare un sms a mio zio scrivendogli il paese che lui mi scrive sul foglio di giornale.
Fatto.
“Non so nemmeno dove cazzo sia. Lo cerco e vi vengo a prendere”
“no. Torniamo da soli, lascia. Aspettaci”
Il viaggio in piedi dura cirac un’ora, ma nemmeno lo sento. Mi spiace vedere mio padre così incazzato, mi spiace non aver controllato meglio.
Scendiamo in quel paese al confine con la costa, guardiamo i tabelloni. Il tipo non inglese che parla inglese, mi dice che se scendo le scale mi ritrovo sul binario opposto e lì c’è il treno. Mi fa segno “muoviti!” ma ho visto che c’è un ascensore.
“Thank you so much! I must take the elevator” (gli Aerosmith insegnano)
Credo di aver strutturato una frase con venti errori, ma il tipo mi comprende, mi sorride.
Scendiamo. Prendo il treno. Questo ha dei gradini altissimi e io non riesco più a stare in piedi. Mi aiuta mio padre. I sedili sono lerci, sgonfi d’imbottitura e bassissimi. Ma ci sediamo, finalmente. Mezz’ora e siamo ad East Croydon.
Percorro per l’ultima volta la salitina che conduce alla Stazione. Il nero umidiccio del corrimano mi resterà attaccato al palmo anche questa volta. Mi fermo a metà. Guardo le telecamere. Magari qualcuno mi riguarderà percorrere quella salita/discesa lentissima tenendomi al corrimano e si farà domande.
Manie di grandezza. Ma chi non le ha?
Mio zio si è rilassato. Ci viene incontro e ride.
Io sdrammatizzo: “Vabbè…abbiamo perso un’ora, ma chissenefrega, no? E’ ancora presto…”
“allora andiamo allo spagnolo?”
“ok”
Il ristorante “La Tasca” è vicino a casa. Mio zio ci lascia giù e riporta l’auto a casa. Ritorna a piedi.
Sì. E’ per me che ogni_volta_deve_prendere_l’auto.
Io ordino pesce, niente di strano: calamares, fritura mixta, langostinos (gamberoni)
In un angolodel bar/ristorante c’è della gente che balla. Il maestro non è un tipo mui caliente, anzi. Un pezzo di legno. Ci sono donne che ballano con donne, due coppie d’anziani. Una tipa che sembra la madre di Amy Winehouse.
Quest’ultima pare un bel po’ bevuta. Fa la micia in calore con due tipi che non se la filano.
Poi demorde. S’appoggia al bancone del bar e sembra punti mio padre. La guardo, ma non merita nessun giudizio da parte mia.
Magari è la sera del suo non compleanno. Magari suo figlio ha trovato lavoro oggi e vuole festeggiare. Magari ha solo voglia d’una notte d’amore romantica.
Al tavolo a fianco cantano “Happy birthday to you…” e mi viene in mente quando un paio di mesi fa, in una spaghetteria, ogni dieci minuti spegnevano la luce e mettevano il disco “tanti auguri a te… tanti auguri…” perché c’erano cinque o sei compleanni, più una coppietta che festeggiava un anno e, per finire, due miei amici a cui poi hanno urlato “nudi nudi”.
Maria Alice, la cameriera, riceve la mancia da mio zio, che dice è d’obbligo, un dieci per cento del conto.
Torniamo a casa, tra la notte illuminata. Domani si torna a casa.
(song: A Punch Up at a Wedding-Radiohead)

mercoledì 23 luglio 2008

DIARY OF LONDON-PART 4

DIARY OF LONDON-PART 4
domenica 6 Luglio 08

(Covent Garden, Trafalgar Square, National Gallery)
Il tempo è sempre brutto. Non è che piova granché, ma piove. Le previsioni danno sole nel pomeriggio, ma non è un sole che scalda.
Di nuovo stazione. Riporta l’auto a casa. Torna. Facciamo i biglietti. Solito treno entro i tre minuti che perdiamo. Prendiamo quello successivo. Solito quarto d’ora di treno. Mangiamo alla stazione. Io prendo un panino con bacon, salsiccia e insalata e una coca cola.
Mio zio ci spiega come dovremo fare l’indomani a guardare sul display il treno che porta ad East Croydon. Tanto l’indomani, nel caos generale, lo sbaglieremo.
Aspettiamo in stazione che spiova un po’. Prendiamo un autobus, scendiamo a COVENT GARDEN. Essere lì in mezzo alla gente, a piedi, tra i mercatini, i fiori, gli artisti di strada, mi fa sentire più coinvolta, più presente, più viva rispetto all’esperienza avuta il giorno prima, in cui mi sentivo solamente una spettatrice dietro un vetro.
Ci sono due tipi che prendono al volo clavette lanciate da una bimba, stando in equilibrio su un trabicolo sorretto da una ruota. Uno dei due inizia a spogliarsi, sfida l’altro (meno dotato nel fisico) a fare lo stesso e l’altro resta con indosso solo un tutù fuxia. I due scatenano l’ilarità generale. Mio zio dice fanno lo stesso spettacolo ogni giorno, ma per m è una novità.
C’è un tipo di colore, vestito di pelle nera, che imita le gesta di Matrix. Ha degli occhi incendiari e quando mi fissa ho quasi paura.
C’è un altro uomo che parla francese, e sembra pazzo. Lancia in aria dei coltelli, come per gioco.
C’è uno che canta qualcosa che assomiglia a una canzone lirica, ma quasi nessuno lo ascolta.
Lasciamo Covent Garden e prendiamo un taxi. Questi macchinoni neri, con lo sportello al contrario e la salita di difficile impatto, se hai problemi articolari. L’uomo coi capelli bianchi e la coda ci conduce a TRAFALGAR SQUARE. Facciamo un paio di foto, o forse dieci, e, non vedendo l’ingresso, ci facciamo un giro lunghissimo per trovare l’accesso senza scale alla NATIONAL GALLERY. Scelgo le, poche, stanze da farmi. Guardiamo Botticelli, Caravaggio, Rembrandt e poi, finalmente, passiamo agli impressionisti che sono i miei preferiti.
Mio zio mi tratta come una piccola studentessa e mi fa leggere le didascalie.
“Devo dire che ti sei guadagnata uno schifoso due e mezzo in lettura”
Rido. Lo ringrazio. Decido di riprovarci nella Room 45, quella in cui c’è Van Gogh. Leggo quello che hanno scritto accanto al “La sedia Di Vincent”
“Allora? Come sono andata?”
“Lascia perdere. Peggio di prima”
Ho riso. Mio zio fa lo stronzo, ma è divertente. Forse mi piace perché anche io sono stronza a volte ed è a lui, probabilmente, che devo il mio lato sarcastico che apprezza. Mi ha dato un voto più basso, è vero! Ma c’è da tener conto del mio coinvolgimento emotivo con l’opera.
Ad ogni stanza mi fermo. Mi siedo sui tavolini di legno nel mezzo e mi perdo assorta in una tela a caso, per far riposare gambe e schiena. Non sopporto più i dolori alla schiena. Deve essere stata la caduta di due settimane fa. Deve essere la mia andatura claudicante.
Mio zio si siede due minuti con me. Notiamo come le persone messa a guardiano in ogni stanza si spacchino la schiena dal lavoro. Si limitano a stare sedute. E guardare. Cazzo che lavoro stremante! Io non ce la faccio più. Prendiamo l’ascensore.
Andiamo a fare pipì. Ci ritroviamo nella hall, nella stanza dei pc. I miei genitori proseguono il giro. Io e mio zio ci confrontiamo sui vari quadri visti, zoomandone i particolari. Ci sfidiamo su quale sia l’artista con maggior numero di opere. Litighiamo nuovamente su quale sia il migliore.
Ora ho fame. Un panino vaga solitario nella mia pancia.
Mio zio si offre di prendermi qualcosa: gli chiedo una cioccolata, ma torna senza. Non ne hanno.
“Come sarebbe a dire -non ne hanno-? E uno cosa beve?”
“Caffè lungo, the”
“Volevo la cioccolata”
“Fai un reclamo al direttore, no?”
“Mmm… potrei dirgli…”
“Dai, sforzati. Vediamo cosa gli chiederesti”
“Excuse me Sir…Why can I have a chocolate…”
“No, no! Dovresti dirgli…Excuse me… Why can’t I drink any blooding fucking chocolate in your fucking museum?”“Ma blood non significa sangue?”
“Sì, ma è rafforzativo”
Tornata a casa, ho scritto undici bigliettini, da attaccare agli undici portachiavi colorati della National Gallery acquistati per I miei colleghi/college/capo _ROOM 45-YOU CAN’T DRINK ANY BLOODING FUCKING CHOCOLATE-LOVE, ME_
Solo un collega è rimasto shockato come volevo. Gli altri non sanno l’inglese, credo. Si sono limitati a sorridere.
(song: Hight and Dry - Radiohead)

martedì 22 luglio 2008

DIARY OF LONDON-PART 3

DIARY OF LONDON-3
Sabato 5 Luglio 2008
(The Big Bus Experience)
La mattina seguente alle otto sono già sveglia. Evento straordinario per essere sabato. Sono come nuova. Lo zio mi ha ceduto il suo matrimoniale col materasso duro ortopedico e io l’ho condiviso con mia madre che, come ogni persona che abbia questa fortuna, deve fare attenzione a non darmi botte o calci sulle ginocchia. Da parte mia, ho imparato a dormire rasente al bordo, se non sono più che certa dell’affidabilità della persona che mi dorme accanto.
Ho fatto colazione con calma, guardando fuori dalla grande finestra la scala ormai spenta e, mentre i miei genitori e lo zio sono fuori, scrivo un piccolo resoconto a un amico.
Alle undici:venticinque prepariamo un panino a testa, delle chips per me e lo zio ci accompagna in stazione. Riporta a casa l’auto.
Nelle stazioni londinesi nessuno bada a te. Niente a che vedere con quelle di Milano, Gallarate che se sei sola, dopo un po’ hai paura. C’è un sacco di polizia. Un sacco di gente, la più diversa, che va avanti e indietro e in obliquo. Ci sono ragazze con microabiti e gambe nude con quindici gradi e ci sono ragazzi col piumino col collo di pelo. Ci sono ragazzi in infradito e ci sono ragazze con gli stivali imbottiti. Ci sono ragazzi di colore con l’ombrellino rosa shocking che vengono perquisiti in mezzo al passaggio. C’è gente che passa e che è come se al ragazzo non stessero facendo nulla, o lui non esistesse del tutto.
Mio zio è ritornato indietro a piedi. Ha fatto la one day travel card e ha detto:
“se ci muoviamo tra tre minuti c’è un treno”
“allora lo abbiamo perso. Non posso correre. Non ce la faccio”
Chissà perché, ma anche nei due giorni successivi, sebbene a orari diversi, il treno era sempre pronto ad arrivare dopo tre fottuti minuti. E’ che c’era una discesa da fare, un tratto a piedi. Se non hai delle gambe quasi perfette tre minuti sono troppo pochi. Devi aspettare quello successivo.
Prendiamo il treno (quello coi gradini bassi) che da East Croydon ci porta a Victoria Station, e poi il pullman col bollino blu (otto lingue) che non arriva più. Decido di salire, con estrema fatica, al piano superiore. Mi chiedo se anche l’anno scorso a Roma ho fatto così tanta fatica, o se sto peggiorando. Mando ‘sti pensieri affanculo e mi infilo le cuffiette. Il tragitto obbligato ci conduce per BELGRAVE PLACE, KNIGHT BRIDGE, HARVEY NICHOLS, HARRODS, V & A MUSEUM, ALBERT MEMORIAL, KENSINGTON PALACE, QUUENSWAY, BAYSWATER ROAD, costeggiamo il parco di PETER PAN fatto in onore della principessa Diana, ma non vedo le funi, né i pirati, né il resto che la voce diceva avremmo intravisto. Passiamo per MARBLE ARC, PARK LANE e ci fanno scendere ad HYDE PARK.
Troviamo una panchina e decidiamo di levare i panini dagli zaini e di mangiare. Ci sono un sacco di ragazze bionde, tutte belle, tutte vestite all’ultima moda. Ci sono altrettanti ragazzi omologati, tutti coi capelli finissimi lisci, lo stesso taglio di capelli. C’è della musica nell’aria. Come un concerto. Tra gli altri c’è Fat Boy Slim. Ci spostiamo al baretto, ci facciamo uno schifosissimo caffè.
Dopo esserci riposati, riprendiamo l’autobus, ma resto sotto. Passiamo dall’HARD ROCK CAFE’, GREEN PARK, BUCKINGAM PALACE, VICTORIA STREET, ST JAMES’S PARK, PARLIAMENT SQUARE, BIG BEN, LONDON EYE, WATERLOO ROAD, ROYAL COURTS OF JUSTICE, ST PAUL’S CATHEDRAL, BANK OF ENGLAND e proseguiamo col battello. Credo lo speaker inglese sia spiritoso, perchè dopo ogni sua frase la gente ride. Vediamo la TOWER BRIDGE, SOUTHWARK CATHEDRAL, SHAKESPEARE’S GLOBE THEATRE, la TATE MODERN in lontananza, di nuovo la RUOTA PANORAMICA, the HOUSES OF PARLIAMENT. Il simpaticone ci dice che loro non sarebbero obbligati a intrattenerci con le loro cazzate tutto il viaggio. Quindi, se l’abbiamo apprezzato, possiamo mettere qualche soldo nel cestino bianco che c’è per terra, prima di lasciare il battello. Risaliamo sul pullman che c
i riporta a Victoria Station.
la cosa che più mi rimane di questo viaggio sospesa sui pneumatici, è una scena dal finestrino: un gruppo di ragazzi punk, senza maglietta, tatuati e con la birra in mano che si sono fatti immortalare abbracciati ad un intraprendente china, che fa scattare la foto da un’amica.
Sono rincasata con un po’ di mal di schiena, ho fatto una doccia. Ho mangiato a casa. Credo alle nove ora inglese stessi già dormendo.
(song: The Tourist- Radiohead)

lunedì 21 luglio 2008

DIARY OF LONDON-PART 2

DIARY OF LONDON-2
Venerdì 4 Luglio 2008


(la partenza da Milano/l’arrivo a Londra)
Un senso di nausea mi opprime lo stomaco. Un mal di testa doloroso come una fucilata sulla tempia. Mi sono svegliata alle sei. Dalle sei alle sei e trenta ero sveglia nel letto. Mi sono risvegliata alle sette e venti. E si vede. Ho una faccia da far schifo, peggio di quella che ho di solito. Mia madre, col suo solito mal di testa da tre Cibalgina Due Fast al giorno, mi rimprovera:
-non potevi prenderti il Venerdì mattina? Avresti potuto dormire un po’ di più e mi aiutavi a fare le valige
-la mia roba è già pronta in camera, devi solo metterla in valigia. Ho delle cose da terminare in ufficio, non mi piace lasciare le cose a metà.
A mezzogiorno l’unica che mi da un abbraccio e mi bacia è la collega che ha l’età di mia madre. Le altre boh. Mi lasciano andare via un po’ male, come se il mio star via tre giorni facesse ricadere su di loro chissà che disastro celestiale.
Mi faccio la doccia/mi cambio/mangio con l’imbuto. Alle quattordici la mia sorellina e mio nonno ci accompagnano a Malpensa, Terminal 2. Mio nonno si continua a guardare in giro, come fosse nel Paese Dei Balocchi e dice: “Mi e la tua nona se fosim qui da soli, sa perdisum” e capisco devo stargli accanto.
Mando un sms alla Donna Sonica che lavora al Terminal 1, e le ricordo di leggere la mail per la mostra che ci sarà tra pochi giorni, a cui partecipo. Il cellulare vibra due volte silenzioso.
“Bella Donna…il pc lo uso solo per comprare su E-Bay. Non leggo mai le mail”
“No? Tutte quelle che ti ho mandato! Ne riparliamo bene quando torno. Tieniti libera sabato”
“Si dai…ora pensa al volo va…che mi sa ti stai cagando sotto…ciao!”
Al check-in il tipo coi capelli lunghi e la coda fa una battuta sul fatto io non sia “child” e se la ride. La valigia passa la prova peso 19,70 kg, di cui tre chili camicie compresse e prodotti di bellezza per mio zio. Passo un labirinto giallo e, dopo il controllo col metal detector mi reco al gate ad aspettare il mio volo. Accanto a me c’è un ragazzo col pc. Di fronte ho una coppia di anziani che avranno duecento anni. Ci mettiamo un po’ a capire che il nostro volo apparirà solo tra molti minuti: del resto è la mia prima volta!
Finalmente appare. La fila per l’Easy Jet che porterà a Gatwich è piuttosto lunga. Ho visto dei numeri sui biglietti e, convinta che corrispondano a una fantomatica prenotazione, mi siedo ad aspettare che tutti salgano, con la coppia di anziani. Salgo per ultima, il tipo con la coda e la faccia da spiritoso mi augura buon viaggio. Salgo. Delusione. Big delusion! Sembra un pullman. Tutto qui? Tutto qui l’aereo? Sembriamo un ammasso di sardine inscatolate e non riesco a vedere tre posti vicini liberi. Un ragazzo con accento meridionale, vedendoci smarriti, ci dice che è come l’Alitalia: non ci sono i posti prenotati.
Trovo posto tra due distinti signori inglesi. Le gambe non sono per nulla comode. So già che avrò male quando scenderò.
L’aereo decolla, i motori rullano e nella pancia sento un piccolo vuoto, ma nulla di che. Non sono mai stata sulle montagne russe, non sono tipa da emozioni forti, ma mi aspettavo molto di più. Come una piccola sensazione di paura o un brivido.
Il tipo alla mia destra ha scattato una foto alle montagne prima che venissero ingoiate dalle nuvole. Poi ha riposto la macchinetta nel taschino della camicia, e mi ha sorriso.
Il momento più emozionante del mio viaggio sta per arrivare. Un signore arabo col centrino in testa seduto davanti a me, si è alzato. Ha preso una ventiquattrore dallo scomparto e l’ha tenuta stretta tra le mani, sospesa per aria per tre o forse quattro minuti guardandosi attorno con circospezione. Mi sono guardata un po’ attorno. Il ragazzo del sud lo guardava. L’uomo seduto alla mia destra si è fatto il segno della croce ed ha allacciato le mani sul grembo. L’arabo si è seduto e con estrema pacatezza ha estratto una busta marrone, di quella in cui ti mettono le radiografie. Mi sono rilassata, ho sorriso e ho guardato la spumosità delle nuvole elevarsi fuori dal finestrino.
Sulla sinistra, qualche fila davanti a me, c’è una coppia bellissima. Lui credo sia marocchino, ma ha gli occhi verde chiaro col taglio da gatto e dalla corporatura sembra un modello. Lei è bianchissima, coi capelli rossi ondulati, indossa un abito bianco e, quando si alza in piedi, noto che è altissima.
Hanry, l’uomo più giovane seduto alla mia sinistra, e Dunkan, quello più vecchio vicino al finestrino, bevono una strana zuppa. Ha un odore dolciastro, arancione, che sembra entrarmi in gola. L’ha portata una hostess in due bicchieri blu “IT’S SO HOT” sorride. TOMATO e VEGETABLE leggo sull’etichetta.
Hanry si è fatto portare un cabernet sauvignon mignon. Se solo sapessi decentemente l’inglese (o se solo fossi meno timida) gliene chiederei un goccio. Anzi no. Ho scoperto ora che è rosso: io non bevo vino rosso, non più. Da tre anni.
La famiglia d’arabi seduta davanti a noi è composta da papà, mamma e bimba. La mamma non riesco a vederla. La bimba è fantastica, col suo foularino giallo e la borsetta turchese con le paillettes. Hanno ordinato da mangiare un sacco di cose (twix, kit-kat, coca cola with ice, …), una decina di cose in totale. Pensavano fosse free. Lo stuart è stato quindici minuti in piedi davanti all’uomo col centrino in testa, per fargli capire che doveva pagare. La bimba, l’unica dei tre che parla un po’ di inglese, intuisce la situazione e restituisce il Twix non ancora scartato.
Ho sentito un dolore perforante nelle orecchie. Credevo di non riuscire a sopportarlo più e siamo atterrati.
Mi sono alzata per far scendere Hanry e mi sono riseduta, aspettato che l’aereo si svuotasse.
Avevo i muscoli intorpiditi, la testa che un po’ girava. Ho salutato gli stuarts. Ho visto la scaletta. Ho appoggiato la mano al velivolo. Mi sono bloccata.
“You need help?”
“Yes…” (cazzo, si)
Al gate avevo confidato a mia mamma, ridendo, che la cosa che più mi aveva preoccupato per il viaggio era il fatto che dovessi fare la scaletta per entrare. Lei mi aveva rassicurata dicendomi c’era il braccio. Mi ero rilassata. Ora mi girava la testa, avevo male ai muscoli. Mio papà ha sorriso:
“I’m her father. I help her”
E mi ha dato una mano a fare gli ultimi dannati gradini.
Da lì il percorso è stato lunghissimo. Una persona normale di certe cose non si accorge. Per me è stato un incubo, una via crucis in cui mi sono fermata quattro volte, sedendomi sulle seggiole tra gli sguardi curiosi dei passanti.
Mi ha preso un gran nervoso. Un gran dolore alle articolazioni. Una rabbia verso chi non capisce che per alcuni può essere un problema far tutta quella strada. Poi ho visto mio zio, sono salita sulla sua auto e, il resto, l’avevo scritto l'indomani svegliata e rigenerata, a Livio
io sono a Londra.
tempo di merda.
stamattina non esco: sono arrivata ieri sera (la mia prima volta in aereo) avevo le gambe a pezzi. da piangere.
-non sapevo all'aeroporto si dovesse camminare così tanto!-
mentre mi avvicinavo all'uscita e la testa (un po' ballonzolava) e i polpacci procedevano lentamente morsi dai cani-cattiva circolazione-
ho salutato stuart e hostess e mi sono bloccata!
c'era una scala. cazzo...
lo stuart "carino" (ma brutto per essere uno stuart di quelli che immaginavo io, che vedi nei filmS)
"you need help?"
io "yes..."
ero a pezzi sai?
ma mi ha aiutata mio padre.
scaletta, camminare, camminare, camminare, camminare, sedermi. camminare, sedermi di nuovo, mandare 4 sms sono arrivata, tornarmi un ILA BELLA LONDRA? (cosa ne so? sono nel bordello dell'aeroporto, ci uscirò mai?) camminare, camminare, camminare...
mio zio a prenderci. poi tutte la casettine stile film, i prati.
poi quelle strade al rovescio.
poi i condomini, il garage, l'ascensore, l'appartamento arredato ikea e la pasta al pesto col sugo fatto dal genovese che ho digerito stamattina ;-)
svegliarmi alle 8!!!! (assurdo... il sabato alle8????)
mio zio che m'ha detto stamattina riposati -i cani non mordono più, mi hanno lasciata libera, forse-oggi facciamo un giro. col bus
c'è una scala viola e lilla qui di fronte, la notte.
ma ieri... ero troppo stanca e rotta per aver voglia di fotografarla.
sono nel sud di Londra. nel paese di Kate Moss. e ti scrivo
non è ironico?


(la song: Nice Dream -Radiohead)

domenica 20 luglio 2008

DIARY OF LONDON-PART 1

DIARY OF LONDON-1
E’ trascorsa oltre una settimana dal mio ritorno. E ancora non ho scritto nulla. Anzi, no. Qualcosa a dire il vero ce l’ho: sul cellulare, sull’agenda, sul blog di Livio, sui bigliettini sparsi per la camera che, ormai, sembra la stanza di Babbo Natale, con tutti quei regalini col nastro giallo in giro per la stanza, che ancora non ho dato.
E’ che è stato un rientro pieno di cose da fare e, solo oggi, riesco a trovare un po’ di tempo per me.
E’ stata la mia prima volta a Londra. Il mio primo viaggio in aereo.
Quello che segue è quanto ricordo. Buona lettura!
GIOVEDI’ 3 LUGLIO 2008
(the day before)
Come disegnarsi sinusoidi sulle cosce
graffiando la pelle
con una punta di metallo rossa
à pois
pensare che domani
c’est le départ su tela azzurra
e sperare non piova fino al ritorno
(per la canzone: Simon and Garfunkel - Mrs. Robinson)

giovedì 17 luglio 2008

Protège Moi

_Protège Moi_

le persone mi appaiono la notte
aquiloni molli che nuotano nella mia testa
portandosi frasi dette/baci dati/lacrime piante

le persone mi appaiono di giorno
mischiano ricordi e pensieri
fanno del rosso e del blu il viola

costringendomi ingabbiata in questa vita.

(stanotte 16/07/08 h: 23.44.53)

(puor la chanson: Placebo - Protège moi)

Londra può attendere
: avrei troppe cose da scrivere. e ora sto uscendo piccola M.

mercoledì 9 luglio 2008

OPEN BOX

data la mia natura poliedrica, tornata oggi da London... sarò reperibile i prossimi giorni presso

di seguito, un articolo che ho trovato nel web

(click!>>>>) http://www.exibart.it/profilo/eventiV2.asp?idelemento=56720

qui un altro

(click!>>>>) http://www.artevarese.com/av/view/news.php?sys_tab=20015&sys_docid=2243

qui, invece, la prima serie di foto della collettiva
(la 92-93-94 sono mie e dei miei amici, Geko, Samuele, Giulio)

(click!>>>>) http://www.openboxcrew.com/gallery/

("and now...I sing a song" disse la bambina sul bus : Cafe del mar Acid Jazz Portished & Moloko-The Chillout Album)

martedì 1 luglio 2008

a. r. a. l. e. M. e. l. a. i. o.


a. r. a. l. e. M. e. l. a. i. o.
mi piacciono le
cose difficili e folli
...e...
non capirle mi fa
sentire
piccola
{je peux me dèprimer pour ça
des nuits entières d'insomnie}

( pour la chanson: Edith Piaf, "Je ne veux pas travailler" )