sabato 25 ottobre 2008

Cose mie importanti fragili


par la grace à dieu,
je me noie chaque fois
puis j'émerge à nouveau

(sono tornata...)

pour la chanson: "Vivere una favola" - Vasco Rossi

per gli angeli: grazie a Guillame, le garÇon franÇais

giovedì 23 ottobre 2008

Ceretta

CERETTA

E labbra morbide
perfette
a sognare il pomeriggio con te
il solito
week end déjà vu
eccessi spinti
con obiettivo l’amplesso.
Rientrare
la sera e
sentire
che vogliono togliermi
l’ossigeno
il salbutamolo
e piangere un’ora
al mondo che ti schiaccia.
E te
vuoi scoparmi.

(chanson: Lullaby - The Cure)

sabato 11 ottobre 2008

Cristo Nero

Cristo Nero






C’era una volta…
in un paesino piuttosto lontano, una casetta piccola piccola con un grande portone di legno di rovere.
In questo paese dinoccolato, che contava su per giù duecentocinquanta anime, abitavamo io e mia sorella.
Di giorno facevamo quello che fanno tutti i bambini: andavamo a scuola. In classe eravamo in venticinque e c’era un’unica classe elementare. Il pomeriggio giocavamo con altri bambini del vicinato, o talvolta, noi due soli.
La nostra maestra odorava sempre di vecchia minestra. Non era vecchia di età, ma era sempre senza un filo di trucco, vestiva con colori sciatti e quando tirava i capelli a forma di chignon, le si intravedeva un’unica ciocca grigia. Avendo alunni di cinque differenti età, a fine mattinata, ci assegnava i compiti in base a quella.
La mamma odorava sempre di sapone. Aveva i capelli lunghi, che spesso le chiedevo di sciogliere e lasciarmi accarezzare. Le altre volte li legava, le avrebbero dato fastidio se le fossero passati innanzi agli occhi mentre cuciva. Era una sarta e faceva piccole riparazioni per la nostra piccola comunità. Nostro padre era un ubriacone con l’hobby per il legno. Preparava mobili e, di tanto in tanto, piccoli oggetti di legno da mettere in casa. O da regalare alla ragazza più bella del momento.
Mio padre e la mamma si erano conosciuti in chiesa, ai tempi delle elementari. La mamma scostava di poco il foulard che teneva sulla testa, e girava lo sguardo verso la panca dei bambini, dove il papà le rimandava occhiatine complici. Si erano sposati senza nemmeno conoscere il calore dei loro corpi, pochi anni prima di essere maggiorenni.
L’alito del papà mi avvolgeva la testa mentre mi spingeva sull’altalena. Maria invece ne aveva la nausea quando le dava il bacio della buona notte.
Io e Maria dormivamo nella stessa piccola stanza. Essendo gemelli, spesso venivamo considerati un’unica entità. Avevamo un solo armadio, una sola scrivania con una panchetta per sederci, un solo letto in cui dormire. Tutti i mobili della stanza erano stati fatti con amorevole passione, da nostro padre. E noi due, anche se ne possedevamo un solo esemplare, li amavamo per questo motivo.
Non c’erano molte attività nel nostro paesino. Potevi correre per le stradine ciottolose, potevi chiedere alla mamma di portarti sull’altalena vicino alla spiaggia, potevi andare con la mamma di qualche altro bambino in cima alla collinetta, dove c’era il Cristo Nero.
Noi bambini lo chiamavamo così, ma in realtà era solamente una immensa statua di un Cristo crocefisso. Era grandissimo rispetto a noi e dominava il paese intero. Si diceva lo proteggesse, sovrastandolo da lassù.
Non era mai accaduto nulla di strano da noi. Sempre tutto tranquillo, pacato. Per strada c’erano poche automobili e il loro passaggio distava dieci minuti l’uno dall’altro. Se restavi seduto sui gradini fuori di casa, potevi osservare le vecchie del paese che camminavano sottobraccio vestite completamente di nero. Si usava portare il lutto del marito, di un fratello, per anni e anni. E nessuna aveva il coraggio di ribellarsi a questa usanza. La notte non s’udiva* nemmeno il rumore delle auto. Solo un profondo respiro proveniente da una delle case vicine. La mamma ci aveva detto non era nulla. E che la curiosità è prerogativa del diavolo. Noi eravamo due angeli, quindi non dovevamo farci intaccare da strani pensieri.
Un giorno, dopo che io e Maria avevamo finito i nostri compiti, chiedemmo alla mamma, intenta a cucire un vestito da sposa, il permesso per uscire.
“mamma andiamo un pochino in paese”
“Guido i compiti sono stati fatti?”
“certo mamma!”
“tutti? Sicuro?”
“sicurissimo”
“mi raccomando. Non cacciatevi nei guai. E bada a tua sorella”
“sarà bellissima la tua sposa!”
“mamma” si intromise Maria “quando divento grande ne farai uno così bello anche per me?”
“no Maria” sorrise lei “quando sarai grande te ne farò uno molto più bello di questo. E ora angeli miei, andate. Vostro padre torna per le sette e a quell’ora dovete essere a casa. Non voglio lo facciate gridare”
No, non è una favola per bambini. E’ la mia favola nera. Gli stomaci deboli sono quindi pregati d’andare a leggersi qualcosa d’altro.Io e Maria passeggiavamo tenendoci stretta la mano. Le stradine erano per lo più strettissime, solo in alcune passavano le auto. Queste ultime avevamo l’obbligo perentorio di escluderle.
“dove vuoi andare Maria?”
“mmm…non lo so Guido. Tu?”
“Sull’altalena ci siamo andati ieri. Vuoi che andiamo al Cristo Nero?”
“No, lo sai. La mamma non vuole ci andiamo da soli. Dobbiamo attraversare quel pezzo di strada con le automobili”
“Maria…”
“Che c’è?”
“Ti ricordi dei respiri che sentivi la notte? Quando restavamo svegli perché avevi la febbre alta”
“Sì. Mi facevano una paura”
“Per forza, Maria! La notte tutti i nostri incubi vengono amplificati. E pensi a cose inesistenti che ti terrorizzano”
“Beh? Che vuoi?”
“Andiamo a vedere chi c’è in quella casa?”
“No! Noi siamo angeli! Non dobbiamo essere curiosi”
“Maria, fammi vedere dove hai le ali. Non le hai!” risi “Siamo bambini, non angeli. Prova a volare, e vedrai che cadrai”
“Ma la mamma…”
“Alla mamma non lo diremo. Dai! Andiamo a dare una sbirciatina, poi torniamo a casa. Nessuno lo saprà mai”
“Ma…”
“Non accade mai nulla di strano qui. Perché dovrebbe accadere a noi? Ti prometto ti terrò per mano”
“Andiamo, diamo un’occhiata e torniamo a casa”
“D’accordo capo”
Diedi un bacio sulla guancia a Maria. Era davvero una bambina carina, coi calzettoni a righine beige e la gonna a pieghe rossa. Le strinsi la mano più salda che potessi, affinché non temesse nulla e c’incamminammo. La salita sembrava lunghissima. Era un sacco di tempo che desideravo scoprire a chi appartenesse quel respiro da animale notturno.
Ci trovammo dinanzi il portone. Era molto simile al nostro, perché lì tutti i portoni erano molto simili.
Accostai l’orecchio al legno, ma non si sentiva nulla. Decidemmo di bussare il cerchio d’acciao. Un paio di colpi. Attendemmo un attimo, ma non arrivò nessuno ad aprirci.
“Maria entriamo?”
“Non si entra in casa d’altri”
“Beh, ma magari non ci ha sentiti! Anche la signora Luisa, che ci porta le angurie, spesso bussa ed entra senza che noi le diciamo nulla”
“Ah, già. Va bene, entriamo”
Aprii la porta lentamente. Un enorme stanza si protrasse dinanzi la nostra vista.
“E’ permesso?”
Nessuno rispose.
“Ce ne andiamo?”
“No, Maria. Ormai siamo qui. Dai, due minuti soli. Guarda che casa grande”
Sembrava una distesa di piastrelle solitaria. A casa nostra non c’era uno spazio così vasto senza mobili. Lo attraversammo per intero, c’era una arco in fondo.
Oltre l’arco si estendeva una libreria gigantesca. Erano titoli di libri medici perlopiù. Saggi di matematica, qualcosa di religioso.
“ma il medico del paese non abita qui” disse Maria
“no, direi di no. Boh, sarà uno studente”
Svoltammo a sinistra. La stanza era imbarazzante da quanto fosse maestosa. C’era un’immensa vasca da bagno rotonda con delle statue attorno. Una testa calva sbucava dall’acqua.
“Chi siete?”
Ci chiese senza voltarsi.
“Noi signore abbiamo bussato, chiesto permesso. Siamo Guido e Maria. Abitiamo qui vicino, volevamo conoscerla”
Si voltò. Aveva gli occhi rossi infuocati di un lupo. Prese l’asciugamano dal bordo della vasca e uscì dall’acqua coprendosi.
“Non ho spesso visite. E non amo molto i bambini”
Prese un bastone da terra. Si poggiava a quello, per venirci incontro.
“Allora noi ce ne andiamo a casa. Sarà quasi ora di cena”
“No, ma che dite? Sono le cinque. Restate qui”
“Noi signore andremmo”
“Vi ho detto di rimanere!”
“Maria corri più forte che puoi!”
Ci mettemmo a correre. Via dalla stanza da bagno, verso la stanza della biblioteca. Il battere del suo bastone sul pavimento ci perseguitava. come il "toc" di un orologio a pendolo. In prossimità dell’arco una cancellata di ferro scese veloce dal soffitto. Ci girammo. Un’altra scese automaticamente. A bloccarci in quello spazio. Una terza scese a dividerci.
Eravamo in trappola.
Il grassone venne verso di noi. era tutto sudato. Si toccava la gamba dolente. Correndo gli era caduto l’asciugamano e ora aveva in brutta mostra la sua piccola appendice moscia.
Ora aveva il respiro affannoso che avevamo sentito quella notte.
“Maria” le disse pacatamente, cercando di riprendere fiato “Sai, le brave bambine col nome della santissima non devono guardare gli uomini nudi. Ora sarò costretto a punirti”
“Lasciala stare bastardo!” dalla mia gabbia non potevo aiutarla
“Guido” piangeva “ho paura Guido. Aiutami Guido”
Lui si avvicinò alla libreria. Sul ripiano in alto c’erano, credo, degli oggetti chirurgici, ne scelse due.
“Lasciala o te la faccio pagare”
“Stai buono, che poi ne avrò anche per te”
Maria gridava ossessiva mentre quell’uomo le si avvicinava. Sentivo le sue unghie che graffiavano le sbarre. Lui rideva. Le si avvicinava. La prese. La voltò verso di lui.
“Guarda i miei occhi, perché non li vedrai mai più”
La tramortì con un colpo secco, alla nuca. era stesa incosciente a terra.
Con una strana pinza, le tenne aperte le palpebre, per poi estrarle i bulbi oculari. Se li mise in una mano, e cominciò a farli girare come palline antistress.
Ripose, con maniacale precisione, gli strumenti al loro posto. Le incise il torace col bisturi, poi, con una piccola sega andò più in profondità. Le aprì il torace ed estrasse il cuore.
I miei occhi avevano ogni cosa. Le mie orecchie avevano sentito ogni grido. Ma la mia lingua, i miei muscoli erano impietriti. Non ero riuscito a salvare la mia sorellina. E sapevo ora sarebbe stato il mio turno.
“Visto ragazzino cosa hai fatto accadere a tua sorella? Ma la tua pena sarà certamente peggiore”
Aprì la gabbia. Ero paralizzato. Dicevo alle mie gambe di muoversi, ma non ci riuscivo.
Lasciò i bulbi in una ciotola. Aprì la gabbia. Col suo bastone mi diede una botta all'altezza delle ginocchia. Prese dei lacci di nylon. Mi legò le braccia strette al corpo. Poi le gambe strette ad una tavola, con dei lacci emostatici. Mi aprì a forza la bocca. mi diede qualcosa da ingurgitare, una cosa amara, che mi stordì. Mi tenne la nuca appoggiata al lettino e mi sussurrò
“Hanno già sentito troppe grida. Ora non sentiranno nulla ragazzino”
mi tagliò il padiglione auricolare dalla testa e con un punteruolo perforò i timpani, rendendomi sordo.
Il dolore fu talmente atroce che svenni. Mi risvegliai imbrattato di sangue. non capivo nulla. Inizia a piangere. Sentivo le lacrime bagnarmi la faccia, la maglietta.
Mi guardai più in basso.
Ero incapace di muovermi. Avevo degli aghi nelle braccia. Le gambe ridotte a moncherini erano state saturate e fasciate.
Voi non potete capire i dolori. Non potete sapere cosa vuol dire gridare mentre ti privano di un arto e non sentire la tua voce, nelle tue orecchie. O se lo sapete, lo avete vissuto solo negli incubi.
Lui poi mi fasciò la zona delle orecchie. Mi ricucì i moncherini.
Mi tenne con sé, perché voleva scrivessi la nostra storia. Perché il mondo sapesse.
Nell’altra stanza c’è ancora il corpicino di mia sorella bambina. Qualcuno mi aiuti. Dica ai miei genitori che ci ha visti vent’anni fa, investiti da un’auto pirata.
Perché non voglio conoscano la realtà.


(pour la chanson: "La Bella Tartaruga" - Bruno Lauzi)
(per l'immagine: Galtellì .sardegna.23 Agosto 2008 - mio padre)

un grazie speciale
per la collaborazione artistica, a Jack Shark

*grazie a Paggio Francesco, per aver corretto la mia ignoranza! :-)

sabato 4 ottobre 2008

Wolf

WOLF

Era capace di trasmetterti scosse
solo sfiorandoti le mani
fu un’alchimia strana
un sentirsi parte dell’altro
senza quasi
conoscersi
col bisogno bambino di
mischiarsi i capelli
cornici di labbra
strofinarsi il caldo
delle cosce
e vedere dall’alto
gli occhi azzurri diventare
verdi
aggressivi
sentire un brivido lungo la schiena
pain
chiudere gli occhi
e lasciare il lupo mannaro mi prendesse

(pour la chanson: "Tonight I'm in love with you"-The chocolate)

special thank's:
FABIO per avermi suggerito il gruppo musicale
GL per avermi scarrrricato una delle canzoni

ogni mio Amico
conosce un piccolo segreto della mia vita
qualcuno
,ne sono certa,
si ricorderà di colui che qui è chiamato "Wolf"