martedì 27 dicembre 2005

I don't love you

I don't love you

I just love myself

this evening he called me

he was so nervous

he often said "mi sta bene, non c'e problema"

but I said him "non dirmi va bene. dimmi cosa pensi davvero"

after 30 minutes he told me that he thought that I same leaving him

I don't love you

I just love myself

He told me that he thought we are friends

I told him we aren't friends

He said "bene! anche questo!"

I told him he isn't my friend, because he is ( ). and nothing else. without brands

I don't love you

i don't love already myself

venerdì 16 dicembre 2005

Ingombranti ricordi

"and the winner is...Marco Giani!"

ha vinto un uomo. laureato in lettere.

come il secondo e il terzo classificato ha scritto una favola.

io...non c'entravo nulla

ho toppato di nuovo concorso. e siamo a tre

(la prossima volta, prima di mandare qualcosa di mio, mi assicuro non sia una cosa patrocinata dall'oratorio)

Ingombranti ricordi

“a volte con una canzone

è più facile esprimere quello che si prova…

spero che queste

bastino a farti capire…

grazie di tutto!”

Ci sei cascata un’altra volta. Hai fatto sì che quella dedica scritta all’interno del cd, diventasse uno dei tanti buchi di ciambella che talvolta intasano il tuo stomaco. E una lacrima, comportandosi come un aquilone tra le manine incerte di un bimbo in una giornata troppo ventosa, è sfuggita al tuo controllo rigandoti il viso. Forse con eccessivo ritardo, dato che da sei mesi tutto è passato, volato.

In realtà è solo un altro stramaledetto pensiero che, nato troppo facilmente col senno di poi, t’ingombra il cervello. E la testa sembra diventare un palloncino in cui qualcuno sta introducendo eccessiva aria compressa, col rischio di farla scoppiare.

Ingombrante il contrasto tra il batter di ciglia con cui recidi una relazione e il tuo essere ancorata al passato.

Ogni scossa che ha percorso la tua spina dorsale, morendo in un brivido.

Ogni disobbediente lacrima scesa nonostante l’iride volesse nascondersi dietro la palpebra superiore.

Ogni abbraccio che ha avvolto come tentacoli il tuo esile tronco.

Incredibile la tua capacità di riprovare, rileggendo vecchie agende ritrovate riordinando l’armadio, tutte le sensazioni che furono. Rendersi conto che non eri poi cosi diversa da ora: anche se avevi diciassette anni e trascorrevi le ore di lezione scambiando bigliettini con una delle due twins, la tua migliore amica. Ex gemelle di segreti che facevano ingelosire la sorella omozigota. E ora si vedono una, talvolta due volte l’anno, quando ci sono i saldi nel negozio d’abbigliamento in cui lavora.

Serena mente all’improvviso rannuvolata da una foto di due anni fa. Quella in cui sorridi di gioia mista a stupore e un po’ d’imbarazzo. La sala del ristorante per pochi minuti illuminata dalla sola luce delle ventiquattro candeline della sacher. E tra gli applausi dei tuoi “vecchi” amici, le incitazioni scherzose di “nuda nuda” del tavolo dei ragazzi brilli accanto al vostro.

Tachicardia nel rincontrare un “ciao”che al momento fatichi a riconoscere. Pesciolini rossi che galleggiano in un acquario putrido ricordando le vostre incomprensioni di cinque anni prima. Macigni troppo grossi, nascosti dietro capelli biondi e il tuo look glamour. E la rabbia che ti assale per tutto ciò che non gli hai permesso di capire. Per tutto ciò che hai voluto credesse. Ripensamenti assurdi che ti rendono estranea alla tavolata di venti amici ignari che si chiedono cos’ hai.

Nervi scoperti che si fanno sentire quando ad una festa mettono “incredibile romantica”. E ricordi del tuo migliore amico dei ventitré anni che te l’aveva dedicata, rimproverandoti per non essere uscita quella sera. E la tua fatica nel spiegargli il perché. Il suo viso d’improvviso rattristato “cazzo non lo sapevo”. E di risposta il tuo sorriso d’ordinanza “ehi…sono la solita bambina di sempre. Ho solo questa cosa cui sopravvivere. L’importante è che resti così” “altrimenti? Che fai?” “altrimenti non esiste”. E le sue telefonate. E il tuo raccontargli futilità. Di ragazzi stupidi, troppo immaturi, che riteneva non andassero mai bene per te. E il prenderti in giro per il tuo seno piccolo. E la scenata nel pub per le due ali tatuate sopra le natiche. E lo strapiombo nel tuo sterno ora che non vi sentite più.

Consapevole portatrice di ferite aperte, che bruciano quando entri in mare. E ti riportano alla realtà, facendoti comprendere ciò che sei: nient’altro che un bruco distratto erroneamente intrappolato sulla carta moschicida dei sentimenti. Desiderosa di sentirsi nuovamente colorata, leggera, spensierata.

E quando ti rendi conto che i ricordi non sono altro che cieli di Van Gogh, il bozzolo cerca in quell’ira un raggio di sole. E finalmente si schiude.

E rinasci farfalla, riscoprendosi ancora una volta capace di volare verso nuove emozioni, nuove sensazioni.

Ora più intense.

Ora più adatte a te.

commento di mia madre: "nelle cose che scrivi non traspare mai serenità"

spero di ricevere quella telefonata. andrò a berci su...

giovedì 15 dicembre 2005

"Pezzi di me"

pezzi di me

sparsi

sul pavimento di cotto

minute ore fa

rimbalzavano

pallini di mercurio blu

raccoglili tutti

mettili insieme

con maniacale precisione

come fossero minuscole schegge di vetro

incolla i frammenti

stringili con cinghie di nylon

(e promettimi che)

le allenterai

solo

quando

sarò tornata di marmo

domenica 11 dicembre 2005

TOO SOON FOR BEING AN ANGEL


TOO MUCH SOON FOR BEING AN ANGEL
17/06/2005 - Autore: lunatica2
“Come sta mia madre?” fu la prima cosa che domandò quando riprese coscienza. Aveva l’ago di una flebo infilato nel braccio sinistro. Sentiva un freddo atroce lungo tutto il corpo splendidamente abbronzato.
Avrebbe voluto le asciugassero i capelli e le cambiassero il costume appiccicaticcio. Avrebbe voluto una coperta di lana anziché il telo verde con stampata la scritta bianca “ospedale di Savona”.
“Come sarebbe a dire, come sta mia madre? Tu come ti senti piccola?” le chiese l’infermiera.
Lei cercò di alzarsi “Sto bene: ho solo freddo. Dica a mia madre…”.
L’infermiera la rimise giù dolcemente: ”Smettila di preoccuparti”
“Chi mi ha tirata fuori?”
“Un ragazzo. Poco più grande di te”
Arrivò sua madre. Sembrava tranquilla.
“Cosa mi hai combinato?” una lacrima era sfuggita al suo controllo rigandole il viso.
“Scusami. Non volevo…”
Era successo quel pomeriggio. Era il suo ultimo giorno di vacanza al mare. Poi avrebbe trascorso una settimana a casa, prima di cominciare la quarta IGEA.
Sono viva. Ancora. (pensò al risveglio)
Era una ragazza piuttosto inquieta, apparentemente serena.
Vedeva come la guardavano quando col suo metro e settantacinque percorreva la passerella per raggiungere il lettino.
Gambe magrissime. Un bel fondoschiena terminava la sinuosa schiena che disegnava una S eccessivamente accentuata.
S come sexy. S come stronza. S come sola.
Aveva legato solo con un ragazzo quell’estate, uno dei due bagnini. Piuttosto bruttino, non il tipico macho, non certamente il suo tipo. Aveva vent’otto anni e spesso, la sera, quando la trovava in riva al mare che fingeva di dormire, le chiedeva a chi stesse pensando.

“Nessuno”
“Una bella ragazza come te non ha il moroso?” “Non sono bella”
Le piacevano le sue attenzioni. La facevano sorridere i suoi scherni circa il fatto che facesse i compiti, per recuperare il debito di matematica, in spiaggia al tavolo del barattino. Con sottofondo musicale.
Aveva notato un ragazzo della spiaggia libera. Uno col quale talvolta incrociava lo sguardo. Uno al quale era troppo timida per rivolgere un saluto.
Si sentiva sola.
Sola interiormente.
Nella sua pancia.
Desiderava immensamente urlare qualcosa: ma poi…cosa?
Invidiava le spensierate compagnie che scorgeva dal gigantesco balcone del suo appartamento. Un mese era infinito senza nessuno.
E quel giorno era particolarmente giù di morale. La spaventava l’idea di tornare alla noiosa quotidianità.
Disse a sua madre che voleva riposare. Le sue quattro coinquiline andarono in spiaggia. Lei chiuse la porta. Prese due pastiglie di xx prescrittole per i repentini sbalzi emotivi. Attese mezz’ora.
Si vestì e andò nel bar sottostante. Erano le sedici, ma voleva un vodka lemon, forte. Fresco. Il caldo era davvero atroce.
Aspettò le scese.
Sentì il bruciore in gola. Sentì la testa finalmente leggera.
Rimase un attimo seduta, finché realizzò di poter percorrere i pochi metri che la separavano dalla spiaggia senza cadere a terra.
Il mare era piuttosto mosso.
Sua madre e le sue tre sorelle uscirono, le vide allontanarsi per farsi una doccia. Lei entrò, voleva fare l’ultimo bagno.
Sentiva le gambe che faticavano a sostenerla. Si accorse che in acqua c’erano solo quattro persone. Voleva godersela tutta quell’ultima giornata.
Stava bene.
Leggera.
Senza pensieri.
Fece due bracciate. Altre due. Andò più al largo.
A un tratto un’onda la colse alla sprovvista. Si sentì mancare.
Si rivolse a una ragazza bionda a qualche metro da lei “aiutami ti prego!”. Quella la guardava aggrottando le sopracciglia.. “aiutami cazzo!” Forse non capiva. “aiutami, vado sotto!”.
E la testa iniziò a girare forte, fortissimo, vorticosamente.
Rivide come in un fotogramma lei e sua sorella da piccole.
Rivide i sui genitori di circa quindici anni prima.
Le sembrò di vedere qualcosa di chiaro. Un po’ offuscato.
Un senso di pace la invase. Pensò “Dio se mi fai vivere, ti giuro che cambio”.
Si sentì sempre più debole,
L’acqua le entrò nella bocca, nel naso, nella testa, sommergendola. Piano. Piano. Nient’altro.
Ancora oggi, sette anni dopo, non è riuscita a ringraziare colui che l’aveva salvata.