domenica 14 dicembre 2008

Giorno Zero

ti amerò per sempre
del mio modo malato d'amarti

(Amanda Lear-Cocktail d'amore)


GIORNO ZERO (sabato 13)
"numeri volanti
sopra la mia testa
come tornado si mischiano
a normative e colloqui
infinite raffiche di pugni
oltre la linea da saltare
basterebbe un orologio
din don
"

(la song: Afterhours - Tutto domani)

sabato 13 dicembre 2008

Voglio un Bazuka
devo Uccidere Pandora

(immagine: Ray Caesar, The Queen of Flies
chanson: Alanis Morissette, You oughta know)

sabato 15 novembre 2008

Last Night

Last Night
occhi abbaglianti nella notte
un dito verticale
illuminato dalle strisce
bianche nella strada
macchine che sfrecciano
veloci accanto
nessuna si ferma
io nemmeno
e piove

(immagine: http://www.controcanto.it/WEB_pioggia%20notte.jpg)
(pour la chanson: Meg - Running Fast)

...risale a : mercoledì 12 novembre2008,
prima del corso di scrittura creativa

sabato 25 ottobre 2008

Cose mie importanti fragili


par la grace à dieu,
je me noie chaque fois
puis j'émerge à nouveau

(sono tornata...)

pour la chanson: "Vivere una favola" - Vasco Rossi

per gli angeli: grazie a Guillame, le garÇon franÇais

giovedì 23 ottobre 2008

Ceretta

CERETTA

E labbra morbide
perfette
a sognare il pomeriggio con te
il solito
week end déjà vu
eccessi spinti
con obiettivo l’amplesso.
Rientrare
la sera e
sentire
che vogliono togliermi
l’ossigeno
il salbutamolo
e piangere un’ora
al mondo che ti schiaccia.
E te
vuoi scoparmi.

(chanson: Lullaby - The Cure)

sabato 11 ottobre 2008

Cristo Nero

Cristo Nero






C’era una volta…
in un paesino piuttosto lontano, una casetta piccola piccola con un grande portone di legno di rovere.
In questo paese dinoccolato, che contava su per giù duecentocinquanta anime, abitavamo io e mia sorella.
Di giorno facevamo quello che fanno tutti i bambini: andavamo a scuola. In classe eravamo in venticinque e c’era un’unica classe elementare. Il pomeriggio giocavamo con altri bambini del vicinato, o talvolta, noi due soli.
La nostra maestra odorava sempre di vecchia minestra. Non era vecchia di età, ma era sempre senza un filo di trucco, vestiva con colori sciatti e quando tirava i capelli a forma di chignon, le si intravedeva un’unica ciocca grigia. Avendo alunni di cinque differenti età, a fine mattinata, ci assegnava i compiti in base a quella.
La mamma odorava sempre di sapone. Aveva i capelli lunghi, che spesso le chiedevo di sciogliere e lasciarmi accarezzare. Le altre volte li legava, le avrebbero dato fastidio se le fossero passati innanzi agli occhi mentre cuciva. Era una sarta e faceva piccole riparazioni per la nostra piccola comunità. Nostro padre era un ubriacone con l’hobby per il legno. Preparava mobili e, di tanto in tanto, piccoli oggetti di legno da mettere in casa. O da regalare alla ragazza più bella del momento.
Mio padre e la mamma si erano conosciuti in chiesa, ai tempi delle elementari. La mamma scostava di poco il foulard che teneva sulla testa, e girava lo sguardo verso la panca dei bambini, dove il papà le rimandava occhiatine complici. Si erano sposati senza nemmeno conoscere il calore dei loro corpi, pochi anni prima di essere maggiorenni.
L’alito del papà mi avvolgeva la testa mentre mi spingeva sull’altalena. Maria invece ne aveva la nausea quando le dava il bacio della buona notte.
Io e Maria dormivamo nella stessa piccola stanza. Essendo gemelli, spesso venivamo considerati un’unica entità. Avevamo un solo armadio, una sola scrivania con una panchetta per sederci, un solo letto in cui dormire. Tutti i mobili della stanza erano stati fatti con amorevole passione, da nostro padre. E noi due, anche se ne possedevamo un solo esemplare, li amavamo per questo motivo.
Non c’erano molte attività nel nostro paesino. Potevi correre per le stradine ciottolose, potevi chiedere alla mamma di portarti sull’altalena vicino alla spiaggia, potevi andare con la mamma di qualche altro bambino in cima alla collinetta, dove c’era il Cristo Nero.
Noi bambini lo chiamavamo così, ma in realtà era solamente una immensa statua di un Cristo crocefisso. Era grandissimo rispetto a noi e dominava il paese intero. Si diceva lo proteggesse, sovrastandolo da lassù.
Non era mai accaduto nulla di strano da noi. Sempre tutto tranquillo, pacato. Per strada c’erano poche automobili e il loro passaggio distava dieci minuti l’uno dall’altro. Se restavi seduto sui gradini fuori di casa, potevi osservare le vecchie del paese che camminavano sottobraccio vestite completamente di nero. Si usava portare il lutto del marito, di un fratello, per anni e anni. E nessuna aveva il coraggio di ribellarsi a questa usanza. La notte non s’udiva* nemmeno il rumore delle auto. Solo un profondo respiro proveniente da una delle case vicine. La mamma ci aveva detto non era nulla. E che la curiosità è prerogativa del diavolo. Noi eravamo due angeli, quindi non dovevamo farci intaccare da strani pensieri.
Un giorno, dopo che io e Maria avevamo finito i nostri compiti, chiedemmo alla mamma, intenta a cucire un vestito da sposa, il permesso per uscire.
“mamma andiamo un pochino in paese”
“Guido i compiti sono stati fatti?”
“certo mamma!”
“tutti? Sicuro?”
“sicurissimo”
“mi raccomando. Non cacciatevi nei guai. E bada a tua sorella”
“sarà bellissima la tua sposa!”
“mamma” si intromise Maria “quando divento grande ne farai uno così bello anche per me?”
“no Maria” sorrise lei “quando sarai grande te ne farò uno molto più bello di questo. E ora angeli miei, andate. Vostro padre torna per le sette e a quell’ora dovete essere a casa. Non voglio lo facciate gridare”
No, non è una favola per bambini. E’ la mia favola nera. Gli stomaci deboli sono quindi pregati d’andare a leggersi qualcosa d’altro.Io e Maria passeggiavamo tenendoci stretta la mano. Le stradine erano per lo più strettissime, solo in alcune passavano le auto. Queste ultime avevamo l’obbligo perentorio di escluderle.
“dove vuoi andare Maria?”
“mmm…non lo so Guido. Tu?”
“Sull’altalena ci siamo andati ieri. Vuoi che andiamo al Cristo Nero?”
“No, lo sai. La mamma non vuole ci andiamo da soli. Dobbiamo attraversare quel pezzo di strada con le automobili”
“Maria…”
“Che c’è?”
“Ti ricordi dei respiri che sentivi la notte? Quando restavamo svegli perché avevi la febbre alta”
“Sì. Mi facevano una paura”
“Per forza, Maria! La notte tutti i nostri incubi vengono amplificati. E pensi a cose inesistenti che ti terrorizzano”
“Beh? Che vuoi?”
“Andiamo a vedere chi c’è in quella casa?”
“No! Noi siamo angeli! Non dobbiamo essere curiosi”
“Maria, fammi vedere dove hai le ali. Non le hai!” risi “Siamo bambini, non angeli. Prova a volare, e vedrai che cadrai”
“Ma la mamma…”
“Alla mamma non lo diremo. Dai! Andiamo a dare una sbirciatina, poi torniamo a casa. Nessuno lo saprà mai”
“Ma…”
“Non accade mai nulla di strano qui. Perché dovrebbe accadere a noi? Ti prometto ti terrò per mano”
“Andiamo, diamo un’occhiata e torniamo a casa”
“D’accordo capo”
Diedi un bacio sulla guancia a Maria. Era davvero una bambina carina, coi calzettoni a righine beige e la gonna a pieghe rossa. Le strinsi la mano più salda che potessi, affinché non temesse nulla e c’incamminammo. La salita sembrava lunghissima. Era un sacco di tempo che desideravo scoprire a chi appartenesse quel respiro da animale notturno.
Ci trovammo dinanzi il portone. Era molto simile al nostro, perché lì tutti i portoni erano molto simili.
Accostai l’orecchio al legno, ma non si sentiva nulla. Decidemmo di bussare il cerchio d’acciao. Un paio di colpi. Attendemmo un attimo, ma non arrivò nessuno ad aprirci.
“Maria entriamo?”
“Non si entra in casa d’altri”
“Beh, ma magari non ci ha sentiti! Anche la signora Luisa, che ci porta le angurie, spesso bussa ed entra senza che noi le diciamo nulla”
“Ah, già. Va bene, entriamo”
Aprii la porta lentamente. Un enorme stanza si protrasse dinanzi la nostra vista.
“E’ permesso?”
Nessuno rispose.
“Ce ne andiamo?”
“No, Maria. Ormai siamo qui. Dai, due minuti soli. Guarda che casa grande”
Sembrava una distesa di piastrelle solitaria. A casa nostra non c’era uno spazio così vasto senza mobili. Lo attraversammo per intero, c’era una arco in fondo.
Oltre l’arco si estendeva una libreria gigantesca. Erano titoli di libri medici perlopiù. Saggi di matematica, qualcosa di religioso.
“ma il medico del paese non abita qui” disse Maria
“no, direi di no. Boh, sarà uno studente”
Svoltammo a sinistra. La stanza era imbarazzante da quanto fosse maestosa. C’era un’immensa vasca da bagno rotonda con delle statue attorno. Una testa calva sbucava dall’acqua.
“Chi siete?”
Ci chiese senza voltarsi.
“Noi signore abbiamo bussato, chiesto permesso. Siamo Guido e Maria. Abitiamo qui vicino, volevamo conoscerla”
Si voltò. Aveva gli occhi rossi infuocati di un lupo. Prese l’asciugamano dal bordo della vasca e uscì dall’acqua coprendosi.
“Non ho spesso visite. E non amo molto i bambini”
Prese un bastone da terra. Si poggiava a quello, per venirci incontro.
“Allora noi ce ne andiamo a casa. Sarà quasi ora di cena”
“No, ma che dite? Sono le cinque. Restate qui”
“Noi signore andremmo”
“Vi ho detto di rimanere!”
“Maria corri più forte che puoi!”
Ci mettemmo a correre. Via dalla stanza da bagno, verso la stanza della biblioteca. Il battere del suo bastone sul pavimento ci perseguitava. come il "toc" di un orologio a pendolo. In prossimità dell’arco una cancellata di ferro scese veloce dal soffitto. Ci girammo. Un’altra scese automaticamente. A bloccarci in quello spazio. Una terza scese a dividerci.
Eravamo in trappola.
Il grassone venne verso di noi. era tutto sudato. Si toccava la gamba dolente. Correndo gli era caduto l’asciugamano e ora aveva in brutta mostra la sua piccola appendice moscia.
Ora aveva il respiro affannoso che avevamo sentito quella notte.
“Maria” le disse pacatamente, cercando di riprendere fiato “Sai, le brave bambine col nome della santissima non devono guardare gli uomini nudi. Ora sarò costretto a punirti”
“Lasciala stare bastardo!” dalla mia gabbia non potevo aiutarla
“Guido” piangeva “ho paura Guido. Aiutami Guido”
Lui si avvicinò alla libreria. Sul ripiano in alto c’erano, credo, degli oggetti chirurgici, ne scelse due.
“Lasciala o te la faccio pagare”
“Stai buono, che poi ne avrò anche per te”
Maria gridava ossessiva mentre quell’uomo le si avvicinava. Sentivo le sue unghie che graffiavano le sbarre. Lui rideva. Le si avvicinava. La prese. La voltò verso di lui.
“Guarda i miei occhi, perché non li vedrai mai più”
La tramortì con un colpo secco, alla nuca. era stesa incosciente a terra.
Con una strana pinza, le tenne aperte le palpebre, per poi estrarle i bulbi oculari. Se li mise in una mano, e cominciò a farli girare come palline antistress.
Ripose, con maniacale precisione, gli strumenti al loro posto. Le incise il torace col bisturi, poi, con una piccola sega andò più in profondità. Le aprì il torace ed estrasse il cuore.
I miei occhi avevano ogni cosa. Le mie orecchie avevano sentito ogni grido. Ma la mia lingua, i miei muscoli erano impietriti. Non ero riuscito a salvare la mia sorellina. E sapevo ora sarebbe stato il mio turno.
“Visto ragazzino cosa hai fatto accadere a tua sorella? Ma la tua pena sarà certamente peggiore”
Aprì la gabbia. Ero paralizzato. Dicevo alle mie gambe di muoversi, ma non ci riuscivo.
Lasciò i bulbi in una ciotola. Aprì la gabbia. Col suo bastone mi diede una botta all'altezza delle ginocchia. Prese dei lacci di nylon. Mi legò le braccia strette al corpo. Poi le gambe strette ad una tavola, con dei lacci emostatici. Mi aprì a forza la bocca. mi diede qualcosa da ingurgitare, una cosa amara, che mi stordì. Mi tenne la nuca appoggiata al lettino e mi sussurrò
“Hanno già sentito troppe grida. Ora non sentiranno nulla ragazzino”
mi tagliò il padiglione auricolare dalla testa e con un punteruolo perforò i timpani, rendendomi sordo.
Il dolore fu talmente atroce che svenni. Mi risvegliai imbrattato di sangue. non capivo nulla. Inizia a piangere. Sentivo le lacrime bagnarmi la faccia, la maglietta.
Mi guardai più in basso.
Ero incapace di muovermi. Avevo degli aghi nelle braccia. Le gambe ridotte a moncherini erano state saturate e fasciate.
Voi non potete capire i dolori. Non potete sapere cosa vuol dire gridare mentre ti privano di un arto e non sentire la tua voce, nelle tue orecchie. O se lo sapete, lo avete vissuto solo negli incubi.
Lui poi mi fasciò la zona delle orecchie. Mi ricucì i moncherini.
Mi tenne con sé, perché voleva scrivessi la nostra storia. Perché il mondo sapesse.
Nell’altra stanza c’è ancora il corpicino di mia sorella bambina. Qualcuno mi aiuti. Dica ai miei genitori che ci ha visti vent’anni fa, investiti da un’auto pirata.
Perché non voglio conoscano la realtà.


(pour la chanson: "La Bella Tartaruga" - Bruno Lauzi)
(per l'immagine: Galtellì .sardegna.23 Agosto 2008 - mio padre)

un grazie speciale
per la collaborazione artistica, a Jack Shark

*grazie a Paggio Francesco, per aver corretto la mia ignoranza! :-)

sabato 4 ottobre 2008

Wolf

WOLF

Era capace di trasmetterti scosse
solo sfiorandoti le mani
fu un’alchimia strana
un sentirsi parte dell’altro
senza quasi
conoscersi
col bisogno bambino di
mischiarsi i capelli
cornici di labbra
strofinarsi il caldo
delle cosce
e vedere dall’alto
gli occhi azzurri diventare
verdi
aggressivi
sentire un brivido lungo la schiena
pain
chiudere gli occhi
e lasciare il lupo mannaro mi prendesse

(pour la chanson: "Tonight I'm in love with you"-The chocolate)

special thank's:
FABIO per avermi suggerito il gruppo musicale
GL per avermi scarrrricato una delle canzoni

ogni mio Amico
conosce un piccolo segreto della mia vita
qualcuno
,ne sono certa,
si ricorderà di colui che qui è chiamato "Wolf"

mercoledì 24 settembre 2008

Stelline di Glassa

Stelline di glassa
lilla/
tra paillettes d'un capodanno
mai esistito/
black diamants in
the head/
e qualcosa che
manca/
oltre le lune smaltate
mysterious passion




20.09.08h17:06


(concorso "UN BATTITO D'ALI" : http://volobliquo.splinder.com/post/18574969/Autunno+arido)

a Paul
a quei piccoli flash di stupenda telepatia
al mio principe azzurro senza barba da capretta
al cavallomarzianoubriaco che lo condurrà

(pour la chanson: Vincent Gallo - Honey Bunny)

venerdì 19 settembre 2008

all'interno del tubo diafano
lontano poca aria dal volto
pittoresche belve inferocite
vibravano la membrana
urla giganti
da farmi chiudere gl'occhi
rimbombavano corse
come TUUUUUUUUUUUUUUUUUUUUUUUUM di zampe
eD io
lì ferma immobile
con un drin tra le dita
(non le sopporto più
vi prego)
premuto due volte
-porta pazienza-
e la schiena che duoleva


lacrimai tutta la notte

(pour la chanson: Placebo - Infra Red)

lunedì 1 settembre 2008

partecipo a un concorso di poesia
il sito è
www.yamamay.com
il mio nick REVENGEDOLL
il titolo della poesia PLACEBO D'AMORE

votatemi! (please...)

(motivetto allegro: Novastar - Never Back Down)

domenica 17 agosto 2008

la monnaie

monnaie.jpg
ti ho lasciato
quei maledetti soldi
sul tavolo
vatteli a prendere e
mollami. lasciami stare
sono nel mio letto
esausta
(mi hai fatta piangere
in pausa pranzo
e manco te ne sei
accorto)
andrò a lavorare tra poco
già col mal
di testa
e non ne ho voglia
ed è colpa tua
che non sai
non ti accorgi
pagati il biglietto
(magari di sola andata)
che i soldi mi danno il vomito
mi fai pensare
alla mia infanzia
ai sogni di me
nei tempi antichi
della guerra
con le mani piene di monete
che hanno l’attuale
valore
e sorrido a mio padre
così compri
tante cose

venerdì 8 agosto 2008

Sono stata recensita!

Sono stata recensita!sulla rivista "storie all write", n° 62 63 -NEW YORKERS a Jazz Serenade-nella rubrica "la recenseide", a pagina 164
"S come sexy. S come stronza. S come sola": così è descritta la protagonista di "Too soon for being an angel", uno dei testi della fertile produzione della Pamio. Poesie e prose lacerate e laceranti, con una particolare cura grafica del testo. La ricerca dell'eccesso attraversa tutti i suoi testi ma a renderli apprezzabili è che parallelamente scorre una ricerca autentica delle radici dell'eccesso. "Blood & Love" e "Racconti", se a una prima lettura paiono ordigni artefatti, in bilico tra Genet e certi testi di Lydia Lunch, alla distanza colpiscono al cuore come urla strozzate dal disincanto.
(pour la chanson: Vasco Rossi mon amour avec "Canzone"
album "Vado al massimo"/1982
a tutti gli uomini della mia vita,
che anche se li ho sempre chiamati "per nome"
sono stati quello che le altre chiamano moroso/fidanzato
a tutti loro
nessuno dei quali ha il mio link
perchè taglio i ponti con tutti
a tutti gli essere speciali
che sono stati intimi con me
in ogni angolo della mia vita
)

martedì 5 agosto 2008

so di non aver avuto una reazione immediata... ma (come già mi era accaduto nell'altra occasione) ricevere un premio mi ha messa in imbarazzo. RINGRAZIO l'amica argeniogiuliana
per avermi conferito il

premio10elode

con la seguente motivazione:
"per la semplicità con cui ha messo a disposizione il suo cuore nel blog e per la parte poetica che trovo straordinaria. Ciao Revengè. Sei deliziosa* "

(da parte mia... giro il premio a un gruppo d'amici: di Penna e di carne, con la seguente motivazione:


"per la volontà di creare uno spazio per tutti gli amanti della scrittura, per il vostro dispendiare consigli, per il vostro essere amici veri, anche se ci si è visti due volte nella vita, o zero"

link: www.pennadoca.net

con un grazie particolare a
Laura, Mich, Christian, Cinzia, Marianna, Radelan, Zia Lucy)

song: "Musa di nessuno - Afterhours"

venerdì 1 agosto 2008

DIARY OF LONDON-PART 6

DIARY OF LONDON-PART 6
(Well Come Back)
Martedì 8 Luglio 2008
La mattina facciamo colazione con brioches comprate il giorno prima ad Harrods. Io la sera prima avevo chiesto di poterne mangiare mezza alle mele e mezza ai mirtilli. Le ritrovo sul tavolo al risveglio.
Ho un po’ d’ansia per il ritorno. Paura di stancarmi come all’andata e poi di riprendere al lavoro già stremata. Mi faccio l’ultimo caffè nell’appartamento arredato ikea e chiedo a mio zio di darmi una mano con l’inglese: voglio richiedere assistenza.
Arrivati all’aeroporto fermo un uomo col gilet giallo che sta conducendo una carrozzina vuota. Lui mi dice può darmi una mano, ma che devo chiedere al check in.
Do a mio zio il mio tesserino arancione. Lui spiega alla ragazza platino con le ciglia argentee lunghissime, che avrei bisogno di un aiuto. Lei solleva il ricevitore. Con quella sua vocina quattro ottave più alta della norma spiega a Paul la situazione.
“Thanks Paul. Thanks. Bye”
Una persona mi raggiunge con la carrozzina. Quattro anni fa non mi sarei mai abbassata a chiedere una aiuto. Ma ora…
La signora mi porta nella sala d’attesa per gli imbarchi. Mi spiega che mi molla lì da sola fino alle tredici:dieci. Poi arriverà un’altra persona a prendermi.
Mi alzo dalla sedia a rotelle, faccio due passi e mi siedo lì tra i vari nonni, non ho voglia di gironzolare. Mia mamma entra in uno dei negozietti e compra una maglietta viola per la sorella che mancava.
La signora che mi recupera mi chiede se posso fare le scale, mi dice passeremo dalla secret door e mi accorgo, mentre mi scarrozza in giro, che stiamo tagliando un pezzo di tragitto che all’andata mi sembrava infinito.
Ho le braccia strette attorno al tronco come una camicia di forza. La signora mi chiede se ho freddo (no, non ho freddo). E’ che mi sento strana con tutti questi occhi addosso. Come se fosse una rarità vedere una ragazza in carrozzina. Una bionda della sicurezza mi sorride. Mi chiede che problema ho, le dico “my knees”, lei sorride “ok”.
Spingo bene la schiena indietro, scivolo coi glutei in avanti e sfilo il cellulare dalla tasca dei jeans. Glielo porgo. Lei mi perquisisce da seduta. Potrei alzarmi, ma non ne ho voglia. Anche i due ragazzi della sicurezza sorridono “Bye” dico io.
La signora attende con noi in corridoio. Mi chiede se fa caldo a Milano. Quando mio padre le dice ci sono quaranta gradi, lei esclama stupita “Oh My God”
Ora inizio ad avere freddo. Indosso la felpa. Attendo venti minuti, aprono la porta. C’è una ragazza sui vent’anni, una hostess.
“I’m the first!” esclamo, stupita
“Yes, you are” dice la signora
Scendo dalla carrozzina e raggiungo a piedi il posto assegnatomi. Le gambe sono molto più comode.
Durante il viaggio compro delle Pringles.
Il cielo oltre i finestrini è terso. Non si vede quasi nulla.
Atterriamo. La hostess carina mi dice che c’è un assistente che mi attende.
Mi alzo, lei mi si avvicina “You need help?” e mi porge il braccio piegato a squadra nell’aria. Istintivamente le do un paio di carezze e rido “No… no… I… mmm… riesco da sola… tank so much… bye”
Un ragazzo carino mi saluta “buongiorno, l’aiuto”
“Ciao, grazie”
“Appoggi bene la schiena”
“Ok, scusami”
Mi porta di sotto, mi chiede se ho qualcuno ad aspettarmi.
Aspettiamo il rullo trasportatore ci porti i bagagli e mi accompagna all’uscita
“Lei è mia sorella”
“Ok… allora ti lascio qui” ora mi da del tu
“Oddio che hai fatto?” chiede mia sorella, allontanando la sigaretta dalla bocca
“Niente” rido “non me la sentivo di farmi il tragitto a piedi”
E sono rientrata. A casa. Al lavoro.
Col mio bel colorito grigio London

(song: Creep- RAdiohead)
un grazie per tutto questo va
ai Radiohead, che mi hanno ispirata, ascoltandoli in loop alternando trenta/quaranta canzoni quella domenica che fu, nello scrivere queste pagine di diario, e che ho scelto come colonna di ogni pagina che abbia scritto
alla piccola M. che mi aveva detto non potevo non scrivere di Londra, e che, ora, ringrazio per avermi spronata, o mi sarei pentita tra otto anni
a tutti i miei pochi ma affezionati fedeli lettori, che hanno commentato queste pagine, anche se banali, per nulla poetiche o romanzate
ai miei genitori che mi hanno portata con loro, all'interno di questo viaggio alquanto improbabile, che senza loro sarebbe stato impossibile
a mio zio, a cui ho spostato i libri sul comodino (uno me lo devi prestare!) e che mi ha beccata subito, per il suo modo puntigliosamente ironico di vedere la vita

domenica 27 luglio 2008

DIARY OF LONDON-PART 5

DIARY OF LONDON-PART 5
Lunedì 7 Luglio 2008
(Harrods)
Mio zio lunedì mattina doveva lavorare. Io non l’ho sentito alzarsi, né tantomeno venire nella camera dove dormivo io a prendere una camicia tra quelle disposte, nell’armadio di fronte al letto, in ordine cromatico. Spettacolari dal blu al bianco passando per le varie gradazioni di azzurro scuro e azzurro più chiaro.
Il fatto è che a Londra, per la precisione ad East Croydon, andavo a letto talmente stanca e dolorante che il sonno m’abbracciava per l’intera notte catapultandomi in un paradiso di relax da cui la mattina facevo fatica da uscire.
Credo d’aver dormito fino alle undici. E la sera prima non avevo fatto nulla, come al solito.
Terminata la colazione è passato mio zio a prenderci. Saranno state le undici:quaranta e ci ha lasciati in stazione. Come al solito, biglietto, discesina a piedi vietato correre (con immagine d’omino che cade, ma loro corrono lo stesso), treno, Victoria Station, pullman e abbiamo raggiunto Harrods.
Quel giorno pioveva davvero un sacco, a quanto ci disse poi mio zio. E noi, stando in quel centro commerciale per quasi quattro ore, abbiamo trascorso incolumi gran parte dell’acquazzone.
Entrati, un ragazzo di colore con la divisa, mi indica sulla piantina che tengo tra le mani, dove si trova la zona in cui possiamo mangiare. Ogni pizzeria, creperia, ristorante,bar charcuterie, sushi bar hanno degli sgabellini tutt’attorno, per far accomodare le persone fianco a fianco a semi-cerchio. Mia madre decide di non volersi mischiare al resto del popolo, anzi non ha nemmeno più voglia di mangiare. Io e mio padre ci arrangiamo in un altro modo: opto per un muffin al cioccolato e lui per una focaccia alle cipolle e li mangiamo lì! In piedi, appoggiati ad un banchetto.
Ci raggiunge una guardia, che, con fare gentile, ci chiede di uscire fuori a mangiare. La mia riavvolge il nastro dei ricordi e si ferma a otto anni fa. Stessa situazione. Io e un amico che pacatamente fumiamo una Marlboro all’interno del Louvre, accanto a una pianta. Un gruppetto di scolari italiani, che, vedendoci, ha la nostra stessa geniale idea. La guardia che s’avvicina e che, con modi gentili, ci chiede se possiamo uscire.
I prezzi sono limitativi per le mie tasche. Ho guardato un po’ di women’s shoes e womenswear al first floor. Sono andata al quarto per guardare un po’ di women’s fashion. Infine ho deciso fosse meglio andare diretta al ground floor reparto 28 Harrods Souvenirs e comprare qualche posacenere a forma di zampetta di cane, a forma di foglia o lampada d’aladino, borsellino, tazzinine da caffè, due tazze da the, tre confezioni di the, una borsa per mia sorella, un beauty per l’altra, e siamo andati ad ammazzare il conto alla cassa.
Pioveva fortissimo quando siamo usciti. Eppure c’era un ciclista che correva lo stesso come nulla fosse. E ragazzi vestiti di niente che passeggiavano.
Ci siamo rintanati radenti al muro, sotto una tettoia, io accanto a due ragazzetti inglesi che ridevano. Credo avessi un aspetto orribile. Immaginami coi capelli al vento, il kway nero sopra due felpe e la faccia stanca… “Orrible!”
Appena ha smesso un po’ di piovere, abbiamo attraversato la strada e siamo andati a berci una tazza di the. Stare in piedi quattro ore è stato un record per me. Posso capire chi sentendolo dire strabuzza gli occhi, chi non capisce. Dodici anni fa avrei reagito in modo identico. Ma ora sono dall’altra parte della barricata, capisco molte più cose e ho imparato a non incazzarmi, troppo, se gli altri non mi capiscono.
Dopo esserci rifocillati un po’, abbiamo ripreso l’autobus per Victoria Street. Siamo passati da SLOANE STREET, la via dei negozi d’abbigliamento, dove l’unica nota stonata è una gigantografia del Bria, che mi fa vergognare d’essere italiana.
Scesi a Victoria Street c’è un casino. Un casino di gente ferma. Un casino di valigie a terra. Un casino di tabelloni spenti e scritte che scompaiono.
Sono entrata in un negozio che emanava un sacco di profumi diversi, provenienti da bagnoschiuma/saponi/sali da bagno. All’ingresso c’è un cartellone “FREE SEX IN THE SHOWER” e dentro di me sorrido, pensando a (…)
Una ragazza sui vent’anni mi ha sorriso:
“Hi. How are you?”
“Fine”
“xxxgrdkbdvhinbdsfoiyww”
“Sorry? I don’t understand”
“htefgvdsg… buy…kiunfefgt”
“Yes, now I will wach something to buy…”
Ho fatto una gran figura di merda. Mi sono resa conto di non saper nulla d’inglese!
Ero lì dentro, con mia madre, ad annusare i vari pezzi di sapone. Ognuno aveva una frase accanto, un aneddoto. Mi sembra che accanto ad uno ci fosse una curiosità circa Napoleone, che aveva chiesto alla sua amata di non lavarsi, che sarebbe tornato. Ma che se avesse conosciuto quel tipo di sapone, avrebbe cambiato idea.
Mia madre mi dice che forse è meglio che usciamo dal negozio, e cerchiamo mio padre.
Mentre esco c’è della gente che corre veloce nella mia direzione, accanto alla gente ferma nella direzione opposta.
Un uomo sbatte involontariamente la custodia nera dura della sua ventiquattrore sul faccino di un bimbo biondo seduto a terra. Si ferma. Gli dà una carezzina. Il bimbo scoppia a piangere. La madre degenere lo prende in braccio.
Non badiamo alla fila ferma e procediamo verso un treno. Non sono certa sia quello giusto. Non ho controllato il terzo tabellone da destra, ma non mi va di tornare indietro, voglio fidarmi di mio padre. Saliamo. Il treno straripa di persone.
Mio padre chiede a un tipo se ferma ad East Croydon (“Yes”)
io sono in piedi. Mi tengo con entrambe le mani ad una sbarra. Di solito ho sempre trovato il posto a sedere. So che da Victoria ad East Croydon sono circa venti minuti. Posso resistere.
Mio zio mi manda un sms. Gli dico ci siamo! Stiamo arrivando.
Lui si scusa. Mi dice ci sono stati dei disastri, tarderà un attimo.
Vediamo il treno passare da East Croydon, senza fermarsi.
“????!”
“Sorry…” dice l’inglese rivolgendosi a mio padre
telefono a mio zio “Ciao, vai tranquillo. Questo treno è diretto a…”
“Ma come? Cazzo dici? Passami tuo padre…”
Mio padre è incazzato nero. Nella confusione ha sbagliato a guardare il treno.
“Ciao… boh… è un diretto…abbiamo sbagliato a guardare”
“Ma cazzo…Ma come?”
Un signore che parla inglese, ma che non ha nulla a che vedere con gli inglesucci-pc-&-cellulare che ho attorno, mi spiega che, una volta fermo il treno, possiamo prenderne un altro subito che in mezz’ora ci porta ad East Croydon.
Mio padre mi ripassa il cellulare. Mio zio è incazzato.
“Aspetta un attimo” gli dico
Mi rivolgo al tipo che parla inglese “Excuse me sir can you speak with…” e gli porgo il cellulare
Lui mi dice devo mandare un sms a mio zio scrivendogli il paese che lui mi scrive sul foglio di giornale.
Fatto.
“Non so nemmeno dove cazzo sia. Lo cerco e vi vengo a prendere”
“no. Torniamo da soli, lascia. Aspettaci”
Il viaggio in piedi dura cirac un’ora, ma nemmeno lo sento. Mi spiace vedere mio padre così incazzato, mi spiace non aver controllato meglio.
Scendiamo in quel paese al confine con la costa, guardiamo i tabelloni. Il tipo non inglese che parla inglese, mi dice che se scendo le scale mi ritrovo sul binario opposto e lì c’è il treno. Mi fa segno “muoviti!” ma ho visto che c’è un ascensore.
“Thank you so much! I must take the elevator” (gli Aerosmith insegnano)
Credo di aver strutturato una frase con venti errori, ma il tipo mi comprende, mi sorride.
Scendiamo. Prendo il treno. Questo ha dei gradini altissimi e io non riesco più a stare in piedi. Mi aiuta mio padre. I sedili sono lerci, sgonfi d’imbottitura e bassissimi. Ma ci sediamo, finalmente. Mezz’ora e siamo ad East Croydon.
Percorro per l’ultima volta la salitina che conduce alla Stazione. Il nero umidiccio del corrimano mi resterà attaccato al palmo anche questa volta. Mi fermo a metà. Guardo le telecamere. Magari qualcuno mi riguarderà percorrere quella salita/discesa lentissima tenendomi al corrimano e si farà domande.
Manie di grandezza. Ma chi non le ha?
Mio zio si è rilassato. Ci viene incontro e ride.
Io sdrammatizzo: “Vabbè…abbiamo perso un’ora, ma chissenefrega, no? E’ ancora presto…”
“allora andiamo allo spagnolo?”
“ok”
Il ristorante “La Tasca” è vicino a casa. Mio zio ci lascia giù e riporta l’auto a casa. Ritorna a piedi.
Sì. E’ per me che ogni_volta_deve_prendere_l’auto.
Io ordino pesce, niente di strano: calamares, fritura mixta, langostinos (gamberoni)
In un angolodel bar/ristorante c’è della gente che balla. Il maestro non è un tipo mui caliente, anzi. Un pezzo di legno. Ci sono donne che ballano con donne, due coppie d’anziani. Una tipa che sembra la madre di Amy Winehouse.
Quest’ultima pare un bel po’ bevuta. Fa la micia in calore con due tipi che non se la filano.
Poi demorde. S’appoggia al bancone del bar e sembra punti mio padre. La guardo, ma non merita nessun giudizio da parte mia.
Magari è la sera del suo non compleanno. Magari suo figlio ha trovato lavoro oggi e vuole festeggiare. Magari ha solo voglia d’una notte d’amore romantica.
Al tavolo a fianco cantano “Happy birthday to you…” e mi viene in mente quando un paio di mesi fa, in una spaghetteria, ogni dieci minuti spegnevano la luce e mettevano il disco “tanti auguri a te… tanti auguri…” perché c’erano cinque o sei compleanni, più una coppietta che festeggiava un anno e, per finire, due miei amici a cui poi hanno urlato “nudi nudi”.
Maria Alice, la cameriera, riceve la mancia da mio zio, che dice è d’obbligo, un dieci per cento del conto.
Torniamo a casa, tra la notte illuminata. Domani si torna a casa.
(song: A Punch Up at a Wedding-Radiohead)

mercoledì 23 luglio 2008

DIARY OF LONDON-PART 4

DIARY OF LONDON-PART 4
domenica 6 Luglio 08

(Covent Garden, Trafalgar Square, National Gallery)
Il tempo è sempre brutto. Non è che piova granché, ma piove. Le previsioni danno sole nel pomeriggio, ma non è un sole che scalda.
Di nuovo stazione. Riporta l’auto a casa. Torna. Facciamo i biglietti. Solito treno entro i tre minuti che perdiamo. Prendiamo quello successivo. Solito quarto d’ora di treno. Mangiamo alla stazione. Io prendo un panino con bacon, salsiccia e insalata e una coca cola.
Mio zio ci spiega come dovremo fare l’indomani a guardare sul display il treno che porta ad East Croydon. Tanto l’indomani, nel caos generale, lo sbaglieremo.
Aspettiamo in stazione che spiova un po’. Prendiamo un autobus, scendiamo a COVENT GARDEN. Essere lì in mezzo alla gente, a piedi, tra i mercatini, i fiori, gli artisti di strada, mi fa sentire più coinvolta, più presente, più viva rispetto all’esperienza avuta il giorno prima, in cui mi sentivo solamente una spettatrice dietro un vetro.
Ci sono due tipi che prendono al volo clavette lanciate da una bimba, stando in equilibrio su un trabicolo sorretto da una ruota. Uno dei due inizia a spogliarsi, sfida l’altro (meno dotato nel fisico) a fare lo stesso e l’altro resta con indosso solo un tutù fuxia. I due scatenano l’ilarità generale. Mio zio dice fanno lo stesso spettacolo ogni giorno, ma per m è una novità.
C’è un tipo di colore, vestito di pelle nera, che imita le gesta di Matrix. Ha degli occhi incendiari e quando mi fissa ho quasi paura.
C’è un altro uomo che parla francese, e sembra pazzo. Lancia in aria dei coltelli, come per gioco.
C’è uno che canta qualcosa che assomiglia a una canzone lirica, ma quasi nessuno lo ascolta.
Lasciamo Covent Garden e prendiamo un taxi. Questi macchinoni neri, con lo sportello al contrario e la salita di difficile impatto, se hai problemi articolari. L’uomo coi capelli bianchi e la coda ci conduce a TRAFALGAR SQUARE. Facciamo un paio di foto, o forse dieci, e, non vedendo l’ingresso, ci facciamo un giro lunghissimo per trovare l’accesso senza scale alla NATIONAL GALLERY. Scelgo le, poche, stanze da farmi. Guardiamo Botticelli, Caravaggio, Rembrandt e poi, finalmente, passiamo agli impressionisti che sono i miei preferiti.
Mio zio mi tratta come una piccola studentessa e mi fa leggere le didascalie.
“Devo dire che ti sei guadagnata uno schifoso due e mezzo in lettura”
Rido. Lo ringrazio. Decido di riprovarci nella Room 45, quella in cui c’è Van Gogh. Leggo quello che hanno scritto accanto al “La sedia Di Vincent”
“Allora? Come sono andata?”
“Lascia perdere. Peggio di prima”
Ho riso. Mio zio fa lo stronzo, ma è divertente. Forse mi piace perché anche io sono stronza a volte ed è a lui, probabilmente, che devo il mio lato sarcastico che apprezza. Mi ha dato un voto più basso, è vero! Ma c’è da tener conto del mio coinvolgimento emotivo con l’opera.
Ad ogni stanza mi fermo. Mi siedo sui tavolini di legno nel mezzo e mi perdo assorta in una tela a caso, per far riposare gambe e schiena. Non sopporto più i dolori alla schiena. Deve essere stata la caduta di due settimane fa. Deve essere la mia andatura claudicante.
Mio zio si siede due minuti con me. Notiamo come le persone messa a guardiano in ogni stanza si spacchino la schiena dal lavoro. Si limitano a stare sedute. E guardare. Cazzo che lavoro stremante! Io non ce la faccio più. Prendiamo l’ascensore.
Andiamo a fare pipì. Ci ritroviamo nella hall, nella stanza dei pc. I miei genitori proseguono il giro. Io e mio zio ci confrontiamo sui vari quadri visti, zoomandone i particolari. Ci sfidiamo su quale sia l’artista con maggior numero di opere. Litighiamo nuovamente su quale sia il migliore.
Ora ho fame. Un panino vaga solitario nella mia pancia.
Mio zio si offre di prendermi qualcosa: gli chiedo una cioccolata, ma torna senza. Non ne hanno.
“Come sarebbe a dire -non ne hanno-? E uno cosa beve?”
“Caffè lungo, the”
“Volevo la cioccolata”
“Fai un reclamo al direttore, no?”
“Mmm… potrei dirgli…”
“Dai, sforzati. Vediamo cosa gli chiederesti”
“Excuse me Sir…Why can I have a chocolate…”
“No, no! Dovresti dirgli…Excuse me… Why can’t I drink any blooding fucking chocolate in your fucking museum?”“Ma blood non significa sangue?”
“Sì, ma è rafforzativo”
Tornata a casa, ho scritto undici bigliettini, da attaccare agli undici portachiavi colorati della National Gallery acquistati per I miei colleghi/college/capo _ROOM 45-YOU CAN’T DRINK ANY BLOODING FUCKING CHOCOLATE-LOVE, ME_
Solo un collega è rimasto shockato come volevo. Gli altri non sanno l’inglese, credo. Si sono limitati a sorridere.
(song: Hight and Dry - Radiohead)

martedì 22 luglio 2008

DIARY OF LONDON-PART 3

DIARY OF LONDON-3
Sabato 5 Luglio 2008
(The Big Bus Experience)
La mattina seguente alle otto sono già sveglia. Evento straordinario per essere sabato. Sono come nuova. Lo zio mi ha ceduto il suo matrimoniale col materasso duro ortopedico e io l’ho condiviso con mia madre che, come ogni persona che abbia questa fortuna, deve fare attenzione a non darmi botte o calci sulle ginocchia. Da parte mia, ho imparato a dormire rasente al bordo, se non sono più che certa dell’affidabilità della persona che mi dorme accanto.
Ho fatto colazione con calma, guardando fuori dalla grande finestra la scala ormai spenta e, mentre i miei genitori e lo zio sono fuori, scrivo un piccolo resoconto a un amico.
Alle undici:venticinque prepariamo un panino a testa, delle chips per me e lo zio ci accompagna in stazione. Riporta a casa l’auto.
Nelle stazioni londinesi nessuno bada a te. Niente a che vedere con quelle di Milano, Gallarate che se sei sola, dopo un po’ hai paura. C’è un sacco di polizia. Un sacco di gente, la più diversa, che va avanti e indietro e in obliquo. Ci sono ragazze con microabiti e gambe nude con quindici gradi e ci sono ragazzi col piumino col collo di pelo. Ci sono ragazzi in infradito e ci sono ragazze con gli stivali imbottiti. Ci sono ragazzi di colore con l’ombrellino rosa shocking che vengono perquisiti in mezzo al passaggio. C’è gente che passa e che è come se al ragazzo non stessero facendo nulla, o lui non esistesse del tutto.
Mio zio è ritornato indietro a piedi. Ha fatto la one day travel card e ha detto:
“se ci muoviamo tra tre minuti c’è un treno”
“allora lo abbiamo perso. Non posso correre. Non ce la faccio”
Chissà perché, ma anche nei due giorni successivi, sebbene a orari diversi, il treno era sempre pronto ad arrivare dopo tre fottuti minuti. E’ che c’era una discesa da fare, un tratto a piedi. Se non hai delle gambe quasi perfette tre minuti sono troppo pochi. Devi aspettare quello successivo.
Prendiamo il treno (quello coi gradini bassi) che da East Croydon ci porta a Victoria Station, e poi il pullman col bollino blu (otto lingue) che non arriva più. Decido di salire, con estrema fatica, al piano superiore. Mi chiedo se anche l’anno scorso a Roma ho fatto così tanta fatica, o se sto peggiorando. Mando ‘sti pensieri affanculo e mi infilo le cuffiette. Il tragitto obbligato ci conduce per BELGRAVE PLACE, KNIGHT BRIDGE, HARVEY NICHOLS, HARRODS, V & A MUSEUM, ALBERT MEMORIAL, KENSINGTON PALACE, QUUENSWAY, BAYSWATER ROAD, costeggiamo il parco di PETER PAN fatto in onore della principessa Diana, ma non vedo le funi, né i pirati, né il resto che la voce diceva avremmo intravisto. Passiamo per MARBLE ARC, PARK LANE e ci fanno scendere ad HYDE PARK.
Troviamo una panchina e decidiamo di levare i panini dagli zaini e di mangiare. Ci sono un sacco di ragazze bionde, tutte belle, tutte vestite all’ultima moda. Ci sono altrettanti ragazzi omologati, tutti coi capelli finissimi lisci, lo stesso taglio di capelli. C’è della musica nell’aria. Come un concerto. Tra gli altri c’è Fat Boy Slim. Ci spostiamo al baretto, ci facciamo uno schifosissimo caffè.
Dopo esserci riposati, riprendiamo l’autobus, ma resto sotto. Passiamo dall’HARD ROCK CAFE’, GREEN PARK, BUCKINGAM PALACE, VICTORIA STREET, ST JAMES’S PARK, PARLIAMENT SQUARE, BIG BEN, LONDON EYE, WATERLOO ROAD, ROYAL COURTS OF JUSTICE, ST PAUL’S CATHEDRAL, BANK OF ENGLAND e proseguiamo col battello. Credo lo speaker inglese sia spiritoso, perchè dopo ogni sua frase la gente ride. Vediamo la TOWER BRIDGE, SOUTHWARK CATHEDRAL, SHAKESPEARE’S GLOBE THEATRE, la TATE MODERN in lontananza, di nuovo la RUOTA PANORAMICA, the HOUSES OF PARLIAMENT. Il simpaticone ci dice che loro non sarebbero obbligati a intrattenerci con le loro cazzate tutto il viaggio. Quindi, se l’abbiamo apprezzato, possiamo mettere qualche soldo nel cestino bianco che c’è per terra, prima di lasciare il battello. Risaliamo sul pullman che c
i riporta a Victoria Station.
la cosa che più mi rimane di questo viaggio sospesa sui pneumatici, è una scena dal finestrino: un gruppo di ragazzi punk, senza maglietta, tatuati e con la birra in mano che si sono fatti immortalare abbracciati ad un intraprendente china, che fa scattare la foto da un’amica.
Sono rincasata con un po’ di mal di schiena, ho fatto una doccia. Ho mangiato a casa. Credo alle nove ora inglese stessi già dormendo.
(song: The Tourist- Radiohead)

lunedì 21 luglio 2008

DIARY OF LONDON-PART 2

DIARY OF LONDON-2
Venerdì 4 Luglio 2008


(la partenza da Milano/l’arrivo a Londra)
Un senso di nausea mi opprime lo stomaco. Un mal di testa doloroso come una fucilata sulla tempia. Mi sono svegliata alle sei. Dalle sei alle sei e trenta ero sveglia nel letto. Mi sono risvegliata alle sette e venti. E si vede. Ho una faccia da far schifo, peggio di quella che ho di solito. Mia madre, col suo solito mal di testa da tre Cibalgina Due Fast al giorno, mi rimprovera:
-non potevi prenderti il Venerdì mattina? Avresti potuto dormire un po’ di più e mi aiutavi a fare le valige
-la mia roba è già pronta in camera, devi solo metterla in valigia. Ho delle cose da terminare in ufficio, non mi piace lasciare le cose a metà.
A mezzogiorno l’unica che mi da un abbraccio e mi bacia è la collega che ha l’età di mia madre. Le altre boh. Mi lasciano andare via un po’ male, come se il mio star via tre giorni facesse ricadere su di loro chissà che disastro celestiale.
Mi faccio la doccia/mi cambio/mangio con l’imbuto. Alle quattordici la mia sorellina e mio nonno ci accompagnano a Malpensa, Terminal 2. Mio nonno si continua a guardare in giro, come fosse nel Paese Dei Balocchi e dice: “Mi e la tua nona se fosim qui da soli, sa perdisum” e capisco devo stargli accanto.
Mando un sms alla Donna Sonica che lavora al Terminal 1, e le ricordo di leggere la mail per la mostra che ci sarà tra pochi giorni, a cui partecipo. Il cellulare vibra due volte silenzioso.
“Bella Donna…il pc lo uso solo per comprare su E-Bay. Non leggo mai le mail”
“No? Tutte quelle che ti ho mandato! Ne riparliamo bene quando torno. Tieniti libera sabato”
“Si dai…ora pensa al volo va…che mi sa ti stai cagando sotto…ciao!”
Al check-in il tipo coi capelli lunghi e la coda fa una battuta sul fatto io non sia “child” e se la ride. La valigia passa la prova peso 19,70 kg, di cui tre chili camicie compresse e prodotti di bellezza per mio zio. Passo un labirinto giallo e, dopo il controllo col metal detector mi reco al gate ad aspettare il mio volo. Accanto a me c’è un ragazzo col pc. Di fronte ho una coppia di anziani che avranno duecento anni. Ci mettiamo un po’ a capire che il nostro volo apparirà solo tra molti minuti: del resto è la mia prima volta!
Finalmente appare. La fila per l’Easy Jet che porterà a Gatwich è piuttosto lunga. Ho visto dei numeri sui biglietti e, convinta che corrispondano a una fantomatica prenotazione, mi siedo ad aspettare che tutti salgano, con la coppia di anziani. Salgo per ultima, il tipo con la coda e la faccia da spiritoso mi augura buon viaggio. Salgo. Delusione. Big delusion! Sembra un pullman. Tutto qui? Tutto qui l’aereo? Sembriamo un ammasso di sardine inscatolate e non riesco a vedere tre posti vicini liberi. Un ragazzo con accento meridionale, vedendoci smarriti, ci dice che è come l’Alitalia: non ci sono i posti prenotati.
Trovo posto tra due distinti signori inglesi. Le gambe non sono per nulla comode. So già che avrò male quando scenderò.
L’aereo decolla, i motori rullano e nella pancia sento un piccolo vuoto, ma nulla di che. Non sono mai stata sulle montagne russe, non sono tipa da emozioni forti, ma mi aspettavo molto di più. Come una piccola sensazione di paura o un brivido.
Il tipo alla mia destra ha scattato una foto alle montagne prima che venissero ingoiate dalle nuvole. Poi ha riposto la macchinetta nel taschino della camicia, e mi ha sorriso.
Il momento più emozionante del mio viaggio sta per arrivare. Un signore arabo col centrino in testa seduto davanti a me, si è alzato. Ha preso una ventiquattrore dallo scomparto e l’ha tenuta stretta tra le mani, sospesa per aria per tre o forse quattro minuti guardandosi attorno con circospezione. Mi sono guardata un po’ attorno. Il ragazzo del sud lo guardava. L’uomo seduto alla mia destra si è fatto il segno della croce ed ha allacciato le mani sul grembo. L’arabo si è seduto e con estrema pacatezza ha estratto una busta marrone, di quella in cui ti mettono le radiografie. Mi sono rilassata, ho sorriso e ho guardato la spumosità delle nuvole elevarsi fuori dal finestrino.
Sulla sinistra, qualche fila davanti a me, c’è una coppia bellissima. Lui credo sia marocchino, ma ha gli occhi verde chiaro col taglio da gatto e dalla corporatura sembra un modello. Lei è bianchissima, coi capelli rossi ondulati, indossa un abito bianco e, quando si alza in piedi, noto che è altissima.
Hanry, l’uomo più giovane seduto alla mia sinistra, e Dunkan, quello più vecchio vicino al finestrino, bevono una strana zuppa. Ha un odore dolciastro, arancione, che sembra entrarmi in gola. L’ha portata una hostess in due bicchieri blu “IT’S SO HOT” sorride. TOMATO e VEGETABLE leggo sull’etichetta.
Hanry si è fatto portare un cabernet sauvignon mignon. Se solo sapessi decentemente l’inglese (o se solo fossi meno timida) gliene chiederei un goccio. Anzi no. Ho scoperto ora che è rosso: io non bevo vino rosso, non più. Da tre anni.
La famiglia d’arabi seduta davanti a noi è composta da papà, mamma e bimba. La mamma non riesco a vederla. La bimba è fantastica, col suo foularino giallo e la borsetta turchese con le paillettes. Hanno ordinato da mangiare un sacco di cose (twix, kit-kat, coca cola with ice, …), una decina di cose in totale. Pensavano fosse free. Lo stuart è stato quindici minuti in piedi davanti all’uomo col centrino in testa, per fargli capire che doveva pagare. La bimba, l’unica dei tre che parla un po’ di inglese, intuisce la situazione e restituisce il Twix non ancora scartato.
Ho sentito un dolore perforante nelle orecchie. Credevo di non riuscire a sopportarlo più e siamo atterrati.
Mi sono alzata per far scendere Hanry e mi sono riseduta, aspettato che l’aereo si svuotasse.
Avevo i muscoli intorpiditi, la testa che un po’ girava. Ho salutato gli stuarts. Ho visto la scaletta. Ho appoggiato la mano al velivolo. Mi sono bloccata.
“You need help?”
“Yes…” (cazzo, si)
Al gate avevo confidato a mia mamma, ridendo, che la cosa che più mi aveva preoccupato per il viaggio era il fatto che dovessi fare la scaletta per entrare. Lei mi aveva rassicurata dicendomi c’era il braccio. Mi ero rilassata. Ora mi girava la testa, avevo male ai muscoli. Mio papà ha sorriso:
“I’m her father. I help her”
E mi ha dato una mano a fare gli ultimi dannati gradini.
Da lì il percorso è stato lunghissimo. Una persona normale di certe cose non si accorge. Per me è stato un incubo, una via crucis in cui mi sono fermata quattro volte, sedendomi sulle seggiole tra gli sguardi curiosi dei passanti.
Mi ha preso un gran nervoso. Un gran dolore alle articolazioni. Una rabbia verso chi non capisce che per alcuni può essere un problema far tutta quella strada. Poi ho visto mio zio, sono salita sulla sua auto e, il resto, l’avevo scritto l'indomani svegliata e rigenerata, a Livio
io sono a Londra.
tempo di merda.
stamattina non esco: sono arrivata ieri sera (la mia prima volta in aereo) avevo le gambe a pezzi. da piangere.
-non sapevo all'aeroporto si dovesse camminare così tanto!-
mentre mi avvicinavo all'uscita e la testa (un po' ballonzolava) e i polpacci procedevano lentamente morsi dai cani-cattiva circolazione-
ho salutato stuart e hostess e mi sono bloccata!
c'era una scala. cazzo...
lo stuart "carino" (ma brutto per essere uno stuart di quelli che immaginavo io, che vedi nei filmS)
"you need help?"
io "yes..."
ero a pezzi sai?
ma mi ha aiutata mio padre.
scaletta, camminare, camminare, camminare, camminare, sedermi. camminare, sedermi di nuovo, mandare 4 sms sono arrivata, tornarmi un ILA BELLA LONDRA? (cosa ne so? sono nel bordello dell'aeroporto, ci uscirò mai?) camminare, camminare, camminare...
mio zio a prenderci. poi tutte la casettine stile film, i prati.
poi quelle strade al rovescio.
poi i condomini, il garage, l'ascensore, l'appartamento arredato ikea e la pasta al pesto col sugo fatto dal genovese che ho digerito stamattina ;-)
svegliarmi alle 8!!!! (assurdo... il sabato alle8????)
mio zio che m'ha detto stamattina riposati -i cani non mordono più, mi hanno lasciata libera, forse-oggi facciamo un giro. col bus
c'è una scala viola e lilla qui di fronte, la notte.
ma ieri... ero troppo stanca e rotta per aver voglia di fotografarla.
sono nel sud di Londra. nel paese di Kate Moss. e ti scrivo
non è ironico?


(la song: Nice Dream -Radiohead)

domenica 20 luglio 2008

DIARY OF LONDON-PART 1

DIARY OF LONDON-1
E’ trascorsa oltre una settimana dal mio ritorno. E ancora non ho scritto nulla. Anzi, no. Qualcosa a dire il vero ce l’ho: sul cellulare, sull’agenda, sul blog di Livio, sui bigliettini sparsi per la camera che, ormai, sembra la stanza di Babbo Natale, con tutti quei regalini col nastro giallo in giro per la stanza, che ancora non ho dato.
E’ che è stato un rientro pieno di cose da fare e, solo oggi, riesco a trovare un po’ di tempo per me.
E’ stata la mia prima volta a Londra. Il mio primo viaggio in aereo.
Quello che segue è quanto ricordo. Buona lettura!
GIOVEDI’ 3 LUGLIO 2008
(the day before)
Come disegnarsi sinusoidi sulle cosce
graffiando la pelle
con una punta di metallo rossa
à pois
pensare che domani
c’est le départ su tela azzurra
e sperare non piova fino al ritorno
(per la canzone: Simon and Garfunkel - Mrs. Robinson)

giovedì 17 luglio 2008

Protège Moi

_Protège Moi_

le persone mi appaiono la notte
aquiloni molli che nuotano nella mia testa
portandosi frasi dette/baci dati/lacrime piante

le persone mi appaiono di giorno
mischiano ricordi e pensieri
fanno del rosso e del blu il viola

costringendomi ingabbiata in questa vita.

(stanotte 16/07/08 h: 23.44.53)

(puor la chanson: Placebo - Protège moi)

Londra può attendere
: avrei troppe cose da scrivere. e ora sto uscendo piccola M.

mercoledì 9 luglio 2008

OPEN BOX

data la mia natura poliedrica, tornata oggi da London... sarò reperibile i prossimi giorni presso

di seguito, un articolo che ho trovato nel web

(click!>>>>) http://www.exibart.it/profilo/eventiV2.asp?idelemento=56720

qui un altro

(click!>>>>) http://www.artevarese.com/av/view/news.php?sys_tab=20015&sys_docid=2243

qui, invece, la prima serie di foto della collettiva
(la 92-93-94 sono mie e dei miei amici, Geko, Samuele, Giulio)

(click!>>>>) http://www.openboxcrew.com/gallery/

("and now...I sing a song" disse la bambina sul bus : Cafe del mar Acid Jazz Portished & Moloko-The Chillout Album)

martedì 1 luglio 2008

a. r. a. l. e. M. e. l. a. i. o.


a. r. a. l. e. M. e. l. a. i. o.
mi piacciono le
cose difficili e folli
...e...
non capirle mi fa
sentire
piccola
{je peux me dèprimer pour ça
des nuits entières d'insomnie}

( pour la chanson: Edith Piaf, "Je ne veux pas travailler" )

giovedì 26 giugno 2008

Lucy

Lucy
Disegnò per me
un vestito da sposina
e io andavo a casa sua
mi spogliavo
infilavo le gambe sotto il tulle
e sfioravo il corpo nella stoffa
facendo attenzione
agli spilli puntati
e ad abbottonare la stradina
di sassolini bianchi sulle maniche
mentre lei sistemava
quella più lunga
sulla schiena.

Ho solo quel ricordo
niente matrimonio
niente fedi
niente passerella
da non so dove
al prete o agli sposi.
Lucy dipingeva
quadri paesaggi
in quattro stagioni
belle donne
che appendeva per casa
o regalava.
Oggi Lucy è vecchia
pochi denti in bocca
un cane in casa
quattro pastiglie sul mobile
che le mette
la sera la figlia
e a volte confonde
prende lei quella di Birba
dà al cane quella per il cuore
chiede alla figlia
chi sei?
scaccia i ragni immaginari
che percorrono il pavimento.
[postato tra un esame clinico e l'altro. mattinata in ospedale: rx torace, prelievo con un ago troppo grosso e ho il braccio con un bozzo, ecg. le dita sulla tastiera emanano l'osore di una S al cioccolato mangiata due ore fa con uno schifo di caffè. alle 14 riparto: anestesista. compleanno mia sorella. stasera festeggiamo, se reggo...]
(pour la chanson: The Beatles - lucy in the sky with diamonds)

venerdì 20 giugno 2008

cari i miei numerosissimi fanS ;-)
vi comunico che sono ancora imbarazzata per aver ricevuto
QUESTO
Premio

feddec724b29a6fc7972110c6bd21790dall'amica CHARLOTTE http://quellochemifrega.splinder.com/,
che ringrazio di nuovo

ci ho pensato un po'...la selezione è stata davvero dura...
ma ho trovato 5 blog davvero meritevoli, che vi prego di sbirciare

http://darioemarilena.blogspot.com/
due ragazzi apparentemente "normali" con un cuore immenso oltre la gabbia toracia

http://euroaddicted.blogspot.com/
ma chi l'ha detto che i bancari sono noiosi? lui è eccezionale!

http://sabinaspielrein.splinder.com/
perchè lei è come sono io. ma più bella.

http://zop.splinder.com/
quest'uomo mi stupisce, sempre. per le doti intellettive, ironiche e fumettistiche ;-)

http://www.volobliquo.splinder.com/
perchè è stato il primo sito multiautore ad aver creduto in me. ad avermi invitata a scrivere

Questo è il regolamento per chi lo riceve :



1) scegliere 5 blog che si considerano meritevoli di questo premio, per creatività, design e materiali particolari utilizzati, e che diano un contributo alla comunità dei blogger, indipendentemente dalla lingua!



2) ogni premio assegnato,deve avere il nome dell'autore e il collegamento al suo blog, così che tutti lo possano visitare;



3) ogni premiato deve esibire il premio e mettere il nome e il collegamento al blog di colui che ti ha premiato;



4) Il premiato deve mostrare il collegamento con il blog ARTE Y PICO dove nasce l'iniziativa http://arteypico.blogspot.com



5) pubblicare le regole

(pour la chanson: Hoppipolla - Sigur Ròs)