Il numero 8 di VERSANTE RIPIDO è on line
Il racconto del mese: CRY! (BLOOD MIND) di Ilaria Pamio
CRY! (BLOOD MIND)
racconto di Ilaria Pamio
Le natiche tagliavano le piastrelle
fondendosi tra le venature del pavimento di marmo chiaro. La scapola
destra poggiava su una parete, la sinistra sull’altra. Scomode.
All’angolo di quelle due mura del salotto. Teneva la testa china tra le
mani, i gomiti temporeggiavano sulle ginocchia, rannicchiate in pochi
centimetri quadrati. Sollevò di scatto la testa quando dallo stereo
partì Spank Thru, una delle sue canzoni preferite. Fu allora che si
domandò che ore fossero. ”Porca puttana! Mio padre è un coglione!”
sbraitò guardando La persiana della memoria sulla parete di
fronte a sé “Come cazzo si fa? Come si fa, mi chiedo! Avere tre orologi
con le lancette imbizzarrite. Quello stronzo deve trovare il modo di
farle tornare normali”. La sua testa era sospesa nell’aria. Aveva
ingurgitato anfetamine sciolte in alcool etilico. Non sopportava stare
solo, e ora lo era. Le pupille dilatate non distinguevano un orologio
vero da tre sciolti in un quadro. C’era stata una festa quella sera. I
soliti amici, più qualche imboscato. Il tavolo in noce era saturo di
bicchieri semivuoti. Uno dei calici a tulipano era per terra col corto
gambo spezzato, reo di aver insozzato con Tennessee Whiskey il persiano
rosso e blu sottostante.
Giorgio temeva di soffocare, tanto i
suoi polmoni stavano affogando nel puzzo di pelle dei divani nuovi
impregnati dell’odore di fumo dei vari mozziconi sparsi qua e là nei
posacenere vintage in cristallo e argento. Erano gente_per_bene i suoi
amici, universitari figli di papà con scarpe Prada, che si
accompagnavano a biondine con borsette Louis Vuitton e vertigini su
tacchi Gucci. Nessuno di loro si sarebbe mai permesso di cremare il
tappeto del signor Pirola.
Ora Kurt stava gridando. Giorgio strinse
forte la testa tra le mani e iniziò ad urlare: “Smettila! Smettila!
Chiudi quella fogna di bocca! Chiudila per dio!”. Se ci fossero stati
dei vicini, di sicuro qualcuno avrebbe chiamato la polizia, ma abitava
in una villetta isolata. “Piantala, ti prego”, chiese ora con tono
dimesso, singhiozzando come un bambino.
Chinò nuovamente la testa. Ma balzò in
piedi immediatamente. Sbatteva le mani idrofobe sulle braccia invase da
api “Cosa volete? Che vi ho fatto?”. Forse, durante le sue crisi
depressive corrette con Xanax si era soffermato troppe volte a osservare
il Sogno causato da un’ape attorno a una melograna un secondo prima del risveglio.
Suo padre era un patito di Dalì, ma ignorava quanto quei quadri così
onirici e suggestivi potessero impossessarsi della mente sognatrice del
figlio. Più volte il ragazzo si era chiesto quale paura avesse
accompagnato quella donna indifesa dall’assalto delle tigri. Ma di più
lo preoccupava quell’ape nascosta sotto di lei, che avrebbe potuto
pungerla a sorpresa. Ora quell’ape si era moltiplicata in cento, mille
esemplari che usciti dal frutto si erano diretti verso di lui
procurandogli un dolore intenso che spingeva, scoordinato quasi fosse
posseduto, a dimenarsi tra sedie rivestite di velluto rosso, tavolini
con sopra vasi liberty e carrelli con le bottiglie di Jack Daniels,
Gordon’s Gin, Martini, Keglevich.
D’improvviso il ronzio terminò. Si
guardò le braccia: sgorgavano sangue “Mi hanno riempito di squarci, ma
almeno se ne sono andate”.
Il suo volto disegnò un sorriso esausto.
Ora la calda voce di Lou Reed cantava “Just a perfect day, problems all
left alone” e uscì, barcollante, dalla stanza, diretto verso il bagno,
deciso a ripulirsi da quello schifo.
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