Non so in quanti fossero i racconti pervenuti (e idonei). So solo che, quando ho cercato la sinossi del mio sul sito, ho dovuto caricare la pagina diverse volte
Per chi fosse interessato, qui sotto, il mio racconto per il tema "DONNE ALLA GUIDA. DEL MONDO" dal titolo "TE GUSTA LA GASOLINA?"
Wrrrromm gn gn.
Sobbalzi strani.
Pigiai l’acceleratore. Nulla.
Abbassai il volume della radio.
Wrrrromm gn gn.
L’auto proseguì per un paio di metri.
Cazzo Christine resisti!
Christine è la mia Y10. Ce l’ho da dieci anni ormai. È stata la mia prima auto, quella che ho acquistato a rate col mio primo stipendio, da neo-patentata, a ventuno anni.
La chiamarono così dei miei amici, in seguito a vari eventi di cui fui protagonista con lei. Dicevo sempre che non era colpa mia e loro ribattevano “eh no, poverina. Non è mica colpa tua. È la macchina che è maledetta, come Christine”. Christine la macchina infernale del romanzo di Stephen King.
Abbassai il volume al minimo. Misi le quattro frecce. Christine si fermò, accanto al guardrail, a duecento metri dal benzinaio.
Due poliziotti che passavano di lì, accostarono. Quello più giovane mi guardò dall’interno del loro abitacolo. “Signorina ha problemi con l'auto?”
Ero combattuta. Tra il piangere per quanto ero stata cogliona (era una settimana che andavo in giro in riserva) e il ridere. Perché mi rendevo conto dell’assurdo caso dell’essere S.O.C.C.O.R.S.A. dalla polizia di Tornavento.
Scelsi una terza via. Quella della svampita che cade dal pero. In fin dei conti bionda ero bionda e, se volevo, sapevo fare gli occhioni da cucciolo smarrito. E li feci.
“Guardi... non so proprio cosa possa essere accaduto. Non va più. Andava così bene stamattina e ora boh, non vuole proprio muoversi”.
Lui aprì la portiera, scese dall’auto e si avvicinò, immergendo la faccia nello spazio del mio finestrino “ma non è che le manca la benzina?".
“Lei dice?”.
“Ma segnava?”.
“Cosa?” se dovevo fare la tonta, era bene farla fino alla fine.
“La spia della riserva”.
“No no, me ne sarei accorta”.
“Giri la chiave”.
Guardammo entrambi il lunotto. Eccola lì la mia amica spia accesa “Eh sì, segnava”.
“E scommetto signorina che ha iniziato ora a segnare”.
“Mi sembra di sì…”
“Inizi a spostarsi da qui”.
“Vede… io ho i comandi al volante. Ho un po’ di difficoltà nel camminare”.
Intervenne il più vecchio tra i due che mi suggerì di mettere in folle e spinse la mia auto, mentre l’altro condusse la loro nei pressi di una piazzola.
In zona Malpensa, passando da Vizzola Ticino per andare a Tornavento, c’è una rotonda. Ed è lì che c’è sempre qualche signorina col decolté in mostra e la minigonna, in attesa che qualche ometto si fermi e la carichi sulla sua voiture per farsi a sua volta montare.
Il poliziotto più giovane corse verso di noi in aiuto del collega, quest’ultimo fradicio di sudore.
Sobbalzi strani.
Pigiai l’acceleratore. Nulla.
Abbassai il volume della radio.
Wrrrromm gn gn.
L’auto proseguì per un paio di metri.
Cazzo Christine resisti!
Christine è la mia Y10. Ce l’ho da dieci anni ormai. È stata la mia prima auto, quella che ho acquistato a rate col mio primo stipendio, da neo-patentata, a ventuno anni.
La chiamarono così dei miei amici, in seguito a vari eventi di cui fui protagonista con lei. Dicevo sempre che non era colpa mia e loro ribattevano “eh no, poverina. Non è mica colpa tua. È la macchina che è maledetta, come Christine”. Christine la macchina infernale del romanzo di Stephen King.
Abbassai il volume al minimo. Misi le quattro frecce. Christine si fermò, accanto al guardrail, a duecento metri dal benzinaio.
Due poliziotti che passavano di lì, accostarono. Quello più giovane mi guardò dall’interno del loro abitacolo. “Signorina ha problemi con l'auto?”
Ero combattuta. Tra il piangere per quanto ero stata cogliona (era una settimana che andavo in giro in riserva) e il ridere. Perché mi rendevo conto dell’assurdo caso dell’essere S.O.C.C.O.R.S.A. dalla polizia di Tornavento.
Scelsi una terza via. Quella della svampita che cade dal pero. In fin dei conti bionda ero bionda e, se volevo, sapevo fare gli occhioni da cucciolo smarrito. E li feci.
“Guardi... non so proprio cosa possa essere accaduto. Non va più. Andava così bene stamattina e ora boh, non vuole proprio muoversi”.
Lui aprì la portiera, scese dall’auto e si avvicinò, immergendo la faccia nello spazio del mio finestrino “ma non è che le manca la benzina?".
“Lei dice?”.
“Ma segnava?”.
“Cosa?” se dovevo fare la tonta, era bene farla fino alla fine.
“La spia della riserva”.
“No no, me ne sarei accorta”.
“Giri la chiave”.
Guardammo entrambi il lunotto. Eccola lì la mia amica spia accesa “Eh sì, segnava”.
“E scommetto signorina che ha iniziato ora a segnare”.
“Mi sembra di sì…”
“Inizi a spostarsi da qui”.
“Vede… io ho i comandi al volante. Ho un po’ di difficoltà nel camminare”.
Intervenne il più vecchio tra i due che mi suggerì di mettere in folle e spinse la mia auto, mentre l’altro condusse la loro nei pressi di una piazzola.
In zona Malpensa, passando da Vizzola Ticino per andare a Tornavento, c’è una rotonda. Ed è lì che c’è sempre qualche signorina col decolté in mostra e la minigonna, in attesa che qualche ometto si fermi e la carichi sulla sua voiture per farsi a sua volta montare.
Il poliziotto più giovane corse verso di noi in aiuto del collega, quest’ultimo fradicio di sudore.
“Fortuna che mi hai detto ce la faccio!” si mise a deriderlo. “Non
hai più l’età per certe cose. Ti do una mano a spingerla”.
In pochi minuti, mi fecero raggiungere la piazzola dove, ad attendermi, c’erano due gambe di baldracca mora, non tanto giovane, che spuntavano dalla sua auto. Era piuttosto in carne e, mentre fingeva interesse per la rivista che stava sfogliando, di tanto in tanto alzava lo sguardo, guardava me e sorrideva.
“Ha qualcuno che può darle una mano?” mi chiese quello più giovane.
“Provo a chiamare mio padre. Papà?... - lui, parlava, ma non si sentiva - papà?... papà?...”. Chiusi la chiamata e mi rivolsi ai poliziotti “Non risponde”.
“Suo padre dov’è ora?”
“Non saprei. Potrebbe essere ovunque, fa l'autista di camion”.
“Signorina l’aiutiamo noi”.
Avrei avuto un’alternativa: mia mamma. Lei era a casa e in quindici minuti sarebbe potuta arrivare in mio soccorso. Ma già immaginavo la scenata.
“Sei senza benzina? E come mai? Cinque minuti per farla non li avevi? Proprio vero: la sera leoni la mattina coglioni” tutto in apnea.
La sera leonesse. Un po’ aveva ragione.
Mi era accaduto di tutto la sera prima. Avevo conosciuto personaggi al limite dell’assurdo.
In pochi minuti, mi fecero raggiungere la piazzola dove, ad attendermi, c’erano due gambe di baldracca mora, non tanto giovane, che spuntavano dalla sua auto. Era piuttosto in carne e, mentre fingeva interesse per la rivista che stava sfogliando, di tanto in tanto alzava lo sguardo, guardava me e sorrideva.
“Ha qualcuno che può darle una mano?” mi chiese quello più giovane.
“Provo a chiamare mio padre. Papà?... - lui, parlava, ma non si sentiva - papà?... papà?...”. Chiusi la chiamata e mi rivolsi ai poliziotti “Non risponde”.
“Suo padre dov’è ora?”
“Non saprei. Potrebbe essere ovunque, fa l'autista di camion”.
“Signorina l’aiutiamo noi”.
Avrei avuto un’alternativa: mia mamma. Lei era a casa e in quindici minuti sarebbe potuta arrivare in mio soccorso. Ma già immaginavo la scenata.
“Sei senza benzina? E come mai? Cinque minuti per farla non li avevi? Proprio vero: la sera leoni la mattina coglioni” tutto in apnea.
La sera leonesse. Un po’ aveva ragione.
Mi era accaduto di tutto la sera prima. Avevo conosciuto personaggi al limite dell’assurdo.
Serena era passata a prendermi per andare a una festa in maschera.
Avevo decorato il mio vestito rosso estivo modello Marylin Monroe, applicando con delle spille da balia, sul davanti, un cuore ritagliato da un foglio con l’immagine della Regina di Cuori e sull’orlo tanti cuori di cartoncino neri e mi ero messa una coroncina in testa.
Quando arrivai, la gente era ancora sobria.
Un ragazzo avvicinandosi a me, disse: “Sei la maschera più bella. Sei la Dea dell’Amore?”
“Ti ringrazio, ma in realtà sarei la Regina di Cuori. Vedi? Ho la corona in testa”.
“Ah credevo… mi sono sbagliato”.
“Non preoccuparti”.
“Ma tu… sei di queste parti?”
“Sì, sono un’amica del padrone di casa”.
“E dimmi, che musica ascolti?”.
Credevo di essere in un telefilm di seconda categoria, dove c’è il ragazzo sfigato che, per rimorchiare una tipa, le porge una carrellata di domande banali.
Cercai di non far trapelare nessuna emozione dal mio viso, sorrisi e gli sfoderai il nome di un gruppo dream pop sperando di zittirlo.
“In questo periodo mi piace il genere indie pop ma anche i suoi sottogeneri. In particolare i Beach House.”
“Non li conosco, ma mi documenterò su questo gruppo che si fa chiamare La casa delle puttane”.
Eh sì. Perché BEACH si pronuncia come BITCH, ed è forse una delle poche parole inglesi che conosci. Ed è carino che tu faccia sfoggio di tutta questa erudizione con una che manco conosci.
Aveva raggiunto il punto più basso a cui potesse arrivare. E il bello, è che era serio! Mi guardava da dietro i suoi occhialetti da intellettuale, con espressione convinta.
“Scusami, ho voglia di un altro cocktail” mi defilai.
E, in quel momento, feci la conoscenza della regina della festa. Una ragazza sui trent’anni, rossa, che gridava in continuazione. E rideva.
“Si è sparata dieci birre, prima di venire qui. E se ne sono portati appresso altre due confezioni”, mi dissero poi.
“Ciao sono Aurora” si presentò.
“Piacere Camilla”.
Stava disponendo sul tavolo del buffet imbandito i suoi tre vassoi. Ognuno contenente trenta coccinelle fatte a mano, con pomodori tagliati, formaggio, olive e dei capperi per occhi.
“Sai Camilla” dal nulla “io mi chiedevo COME CAZZO HAI FATTO?” gridò.
“Ma a fare cosa, scusa?”.
Partì, di nuovo, a voce bassa “Ad avere la voglia di fare TUTTI. QUEI. CUORICINI. PER IL VESTITO!”
“Saranno venti cuoricini, di carta. Ho fatto una striscia, disegnato un cuore, piegato la carta a fisarmonica, tagliati tutti in una sola volta”.
“Ah Gesù!” sembrò sollevata. Chiuse gli occhi in una sorta di trance e si appoggiò alla sedia “fortuna che hai fatto così. Saresti stata completamente pazza se li avessi fatti tutti a mano”.
Si mise a correre e raggiunse un ragazzo un po’ grosso, con i capelli lunghi “amore mio. Lo sai che ti amo, vero?”.
“Sì lo so”.
“E tu mi ami sempre?”.
“Sì” con espressione tra l’annoiato e il perso “ti amo sempre”.
E lei iniziò a strusciarsi contro di lui, che impassibile beveva un’altra delle loro birre.
“Aurora, vado in salotto con gli altri ragazzi. Tu, vieni?”.
“No, sto qui con le mie amiche”. Stava parlando di me e di Serena.
Prese anche lei una birra, dal cestello che si erano portati da casa, e Serena le fece una domanda.
“Quindi state di nuovo insieme?”
“Sì e ci amiamo”.
“Vivete insieme?”
“No, vivo ancora con i miei, non ho ancora trovato lavoro e lui non mi può ospitare”.
“Va beh dai, l’importante è che vi siate di nuovo messi insieme”.
“No, l’importante è che quel maledetto lurido bastardo non mi metta incinta! Perché io non voglio uno straccia cazzi che fino a trent’anni resta in casa e mi ciuccia i soldi. Io voglio restare tutta la vita da sola, col mio amore”.
Le sue parole ci raggelarono. Lo straccia cazzi sarebbe stato un suo ipotetico figlio. E ne parlava in modo negativo, quando lei era la prima a non aver mai lavorato in vita sua.
Io e Serena ci alzammo in piedi e raggiungemmo i ragazzi in salotto.
Probabilmente erano ubriachi. Un paio indossavano cappellini di carta, altri due strimpellavano la chitarra e tutti insieme cantavano una canzone, in dialetto, che storpiava la famosissima Magic Moment.
“Sun chi nel laghett,
sun chi bell e biòt ,
cul bigul a gala.
Me giri de chi, me giri de la,
me schisci una bala.
Tragic Moments…”
Aurora ci aveva raggiunte e ora improvvisava una lap dance intorno al suo bel fusto.
Avevo decorato il mio vestito rosso estivo modello Marylin Monroe, applicando con delle spille da balia, sul davanti, un cuore ritagliato da un foglio con l’immagine della Regina di Cuori e sull’orlo tanti cuori di cartoncino neri e mi ero messa una coroncina in testa.
Quando arrivai, la gente era ancora sobria.
Un ragazzo avvicinandosi a me, disse: “Sei la maschera più bella. Sei la Dea dell’Amore?”
“Ti ringrazio, ma in realtà sarei la Regina di Cuori. Vedi? Ho la corona in testa”.
“Ah credevo… mi sono sbagliato”.
“Non preoccuparti”.
“Ma tu… sei di queste parti?”
“Sì, sono un’amica del padrone di casa”.
“E dimmi, che musica ascolti?”.
Credevo di essere in un telefilm di seconda categoria, dove c’è il ragazzo sfigato che, per rimorchiare una tipa, le porge una carrellata di domande banali.
Cercai di non far trapelare nessuna emozione dal mio viso, sorrisi e gli sfoderai il nome di un gruppo dream pop sperando di zittirlo.
“In questo periodo mi piace il genere indie pop ma anche i suoi sottogeneri. In particolare i Beach House.”
“Non li conosco, ma mi documenterò su questo gruppo che si fa chiamare La casa delle puttane”.
Eh sì. Perché BEACH si pronuncia come BITCH, ed è forse una delle poche parole inglesi che conosci. Ed è carino che tu faccia sfoggio di tutta questa erudizione con una che manco conosci.
Aveva raggiunto il punto più basso a cui potesse arrivare. E il bello, è che era serio! Mi guardava da dietro i suoi occhialetti da intellettuale, con espressione convinta.
“Scusami, ho voglia di un altro cocktail” mi defilai.
E, in quel momento, feci la conoscenza della regina della festa. Una ragazza sui trent’anni, rossa, che gridava in continuazione. E rideva.
“Si è sparata dieci birre, prima di venire qui. E se ne sono portati appresso altre due confezioni”, mi dissero poi.
“Ciao sono Aurora” si presentò.
“Piacere Camilla”.
Stava disponendo sul tavolo del buffet imbandito i suoi tre vassoi. Ognuno contenente trenta coccinelle fatte a mano, con pomodori tagliati, formaggio, olive e dei capperi per occhi.
“Sai Camilla” dal nulla “io mi chiedevo COME CAZZO HAI FATTO?” gridò.
“Ma a fare cosa, scusa?”.
Partì, di nuovo, a voce bassa “Ad avere la voglia di fare TUTTI. QUEI. CUORICINI. PER IL VESTITO!”
“Saranno venti cuoricini, di carta. Ho fatto una striscia, disegnato un cuore, piegato la carta a fisarmonica, tagliati tutti in una sola volta”.
“Ah Gesù!” sembrò sollevata. Chiuse gli occhi in una sorta di trance e si appoggiò alla sedia “fortuna che hai fatto così. Saresti stata completamente pazza se li avessi fatti tutti a mano”.
Si mise a correre e raggiunse un ragazzo un po’ grosso, con i capelli lunghi “amore mio. Lo sai che ti amo, vero?”.
“Sì lo so”.
“E tu mi ami sempre?”.
“Sì” con espressione tra l’annoiato e il perso “ti amo sempre”.
E lei iniziò a strusciarsi contro di lui, che impassibile beveva un’altra delle loro birre.
“Aurora, vado in salotto con gli altri ragazzi. Tu, vieni?”.
“No, sto qui con le mie amiche”. Stava parlando di me e di Serena.
Prese anche lei una birra, dal cestello che si erano portati da casa, e Serena le fece una domanda.
“Quindi state di nuovo insieme?”
“Sì e ci amiamo”.
“Vivete insieme?”
“No, vivo ancora con i miei, non ho ancora trovato lavoro e lui non mi può ospitare”.
“Va beh dai, l’importante è che vi siate di nuovo messi insieme”.
“No, l’importante è che quel maledetto lurido bastardo non mi metta incinta! Perché io non voglio uno straccia cazzi che fino a trent’anni resta in casa e mi ciuccia i soldi. Io voglio restare tutta la vita da sola, col mio amore”.
Le sue parole ci raggelarono. Lo straccia cazzi sarebbe stato un suo ipotetico figlio. E ne parlava in modo negativo, quando lei era la prima a non aver mai lavorato in vita sua.
Io e Serena ci alzammo in piedi e raggiungemmo i ragazzi in salotto.
Probabilmente erano ubriachi. Un paio indossavano cappellini di carta, altri due strimpellavano la chitarra e tutti insieme cantavano una canzone, in dialetto, che storpiava la famosissima Magic Moment.
“Sun chi nel laghett,
sun chi bell e biòt ,
cul bigul a gala.
Me giri de chi, me giri de la,
me schisci una bala.
Tragic Moments…”
Aurora ci aveva raggiunte e ora improvvisava una lap dance intorno al suo bel fusto.
Terminano lì, i miei ricordi su quanto accadde quella sera.
"Dai! andiamo a prenderle una tanica".
Ero rimasta sola, con la baldracca che continuava a fissarmi e a ridere. Che stesse leggendo nei miei pensieri?
Quando i poliziotti tornarono da me, gli diedi le chiavi e mi fecero benzina.
“Non so davvero come ringraziarvi! Non mi era mai successo! Arrivare a trentuno anni e restare in riserva”.
Il più vecchio mi rincuorò “Non si preoccupi! A me è successo due settimane fa. E io ho cinquant’anni!”.
La frase del poliziotto mi fece sorridere. Li ringraziai di nuovo. Girai la chiave per accendere l’automobile, alzai il volume al massimo. Dallo stereo partì "dame mas gasolinaaaaa" e la bagascia, che se la rideva di gusto, si mise in piedi accanto alla sua auto e improvvisò una danza sculettante in mio onore. Scoppiai a ridere anche io.
"Dai! andiamo a prenderle una tanica".
Ero rimasta sola, con la baldracca che continuava a fissarmi e a ridere. Che stesse leggendo nei miei pensieri?
Quando i poliziotti tornarono da me, gli diedi le chiavi e mi fecero benzina.
“Non so davvero come ringraziarvi! Non mi era mai successo! Arrivare a trentuno anni e restare in riserva”.
Il più vecchio mi rincuorò “Non si preoccupi! A me è successo due settimane fa. E io ho cinquant’anni!”.
La frase del poliziotto mi fece sorridere. Li ringraziai di nuovo. Girai la chiave per accendere l’automobile, alzai il volume al massimo. Dallo stereo partì "dame mas gasolinaaaaa" e la bagascia, che se la rideva di gusto, si mise in piedi accanto alla sua auto e improvvisò una danza sculettante in mio onore. Scoppiai a ridere anche io.
Ora la lucina della riserva non era più arancione. L’aghetto della benzina era salito. Accarezzai il cruscotto della mia Y10, finalmente quel wrrrromm gn gn lamentoso della mezz’ora precedente era sparito.
Scossi la testa: “Christine ce l’abbiamo fatta anche questa volta! Prendiamola così… avremo un’altra avventura da raccontare ai nostri amici!”.
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