Il mio racconto "Cristo Nero" (scritto diversi anni fa, dopo una vacanza in Sardegna) è stato pubblicato la scorsa settimana sul sito http://wordsocialforum.com per la prima edizione del contest I racconti della Mezzanotte.
Grazie al team di World Social Forum per avermi scelta.
Grazie a Carlo Lucarelli e alla sua raccolta di racconti "Il lato sinistro del cuore" - Einaudi Stile Libero 2003 - per aver ispirato il mio lato horror.
A voi "stomaci forti" buona lettura!
(sardegna, 2008 - Galtellì, Oristano, Monte Tuttavista)
C’era una volta…
in un paesino piuttosto lontano, una casetta piccola piccola con un grande portone di legno di rovere.
Le strade di questo paese erano tutte ciottolose e, tra le duecentocinquanta anime che lo abitavano, c’eravamo io e mia sorella.
Di giorno facevamo quello che fanno tutti i bambini: andavamo a scuola. In aula eravamo in venticinque e c’era un’unica classe elementare. Il pomeriggio giocavamo con altri bambini del vicinato, o talvolta, noi due soli.
La nostra maestra odorava di vecchia minestra. La pelle libera da trucco, vestiva con colori sciatti e quando raccoglieva i capelli in uno chignon, le si intravedeva un’unica ciocca grigia.
I bambini della classe avevano età differenti e, in base a quella, a fine mattinata ci venivano assegnati i compiti.
La mamma odorava sempre di sapone. Aveva i capelli lunghi, che spesso legava, perché le avrebbero dato fastidio se le fossero passati davanti agli occhi mentre cuciva. Faceva riparazioni per la nostra piccola comunità. Nostro padre aveva l’hobby per il legno. Preparava mobili e, di tanto in tanto, piccoli oggetti da mettere in casa.
Mio padre e mia madre si erano conosciuti in chiesa, ai tempi delle elementari. La mamma scostava di poco il foulard che teneva sulla testa, e girava lo sguardo verso la panca dei bambini, dove il papà le rimandava occhiatine complici. Si erano sposati senza nemmeno conoscere il calore dei loro corpi, pochi anni prima di essere maggiorenni.
L’alito del papà mi avvolgeva la testa mentre mi spingeva sull’altalena. Maria invece ne aveva la nausea quando le dava il bacio della buona notte.
in un paesino piuttosto lontano, una casetta piccola piccola con un grande portone di legno di rovere.
Le strade di questo paese erano tutte ciottolose e, tra le duecentocinquanta anime che lo abitavano, c’eravamo io e mia sorella.
Di giorno facevamo quello che fanno tutti i bambini: andavamo a scuola. In aula eravamo in venticinque e c’era un’unica classe elementare. Il pomeriggio giocavamo con altri bambini del vicinato, o talvolta, noi due soli.
La nostra maestra odorava di vecchia minestra. La pelle libera da trucco, vestiva con colori sciatti e quando raccoglieva i capelli in uno chignon, le si intravedeva un’unica ciocca grigia.
I bambini della classe avevano età differenti e, in base a quella, a fine mattinata ci venivano assegnati i compiti.
La mamma odorava sempre di sapone. Aveva i capelli lunghi, che spesso legava, perché le avrebbero dato fastidio se le fossero passati davanti agli occhi mentre cuciva. Faceva riparazioni per la nostra piccola comunità. Nostro padre aveva l’hobby per il legno. Preparava mobili e, di tanto in tanto, piccoli oggetti da mettere in casa.
Mio padre e mia madre si erano conosciuti in chiesa, ai tempi delle elementari. La mamma scostava di poco il foulard che teneva sulla testa, e girava lo sguardo verso la panca dei bambini, dove il papà le rimandava occhiatine complici. Si erano sposati senza nemmeno conoscere il calore dei loro corpi, pochi anni prima di essere maggiorenni.
L’alito del papà mi avvolgeva la testa mentre mi spingeva sull’altalena. Maria invece ne aveva la nausea quando le dava il bacio della buona notte.
Io e Maria dormivamo nella stessa
stanzetta. Essendo gemelli, spesso venivamo considerati un’unica
persona. Avevamo un solo armadio, una sola scrivania con una panchetta
per sederci, un solo letto in cui dormire. Tutti i mobili della stanza
erano stati fatti con passione da nostro padre. E noi li amavamo per
questo motivo.
Dopo la scuola, potevamo correre per le
stradine sassose, oppure chiedere alla mamma di portarti sull’altalena
vicino alla spiaggia, ma non dovevamo mai andare in cima alla
collinetta, dove c’era il Cristo Nero. Eravamo noi bambini a chiamarlo
così, ma era solo l’immensa statua di un Cristo crocefisso. Grandissimo
rispetto a noi e proteggeva il paese intero, guardandolo da lassù.
Per la strada c’erano poche automobili e
il loro passaggio distava dieci minuti l’uno dall’altro. Se restavi
seduto sui gradini fuori di casa, potevi osservare le signore del paese
che camminavano sottobraccio vestite completamente di nero. Si usava
portare il lutto del marito, di un fratello, per anni e anni.
La notte non s’udiva nemmeno il rumore delle auto.
Solo un profondo respiro proveniente da una delle case vicine, ma la mamma ci aveva detto che non era nulla. E che la curiosità è del diavolo.
Noi eravamo due angeli, quindi non dovevamo avere strani pensieri.
La notte non s’udiva nemmeno il rumore delle auto.
Solo un profondo respiro proveniente da una delle case vicine, ma la mamma ci aveva detto che non era nulla. E che la curiosità è del diavolo.
Noi eravamo due angeli, quindi non dovevamo avere strani pensieri.
Un giorno, dopo che io e Maria avevamo
finito i nostri compiti, chiedemmo alla mamma, intenta a cucire un
vestito da sposa, il permesso per uscire.
“Mamma andiamo un pochino in paese.”
“Guido i compiti sono stati fatti?”
“Certo mamma!”
“Tutti? Sicuro?”
“Sicurissimo.”
“Mi raccomando. Non cacciatevi nei guai. E bada a tua sorella.”
“Promesso” le diedi un bacio e aggiunsi “Sarà bellissima la tua sposa!”
“Mamma” s’intromise Maria “quando divento grande ne farai uno così bello anche per me?”
“No Maria” sorrise lei “quando sarai grande te ne farò uno molto più bello di questo. E ora angeli miei, andate. Vostro padre torna per le sette e a quell’ora dovete essere a casa. Non voglio lo facciate gridare.”
Io e Maria passeggiavamo tenendoci stretta la mano. Le stradine erano strettissime, solo in alcune passavano le auto. E da quelle avevamo il divieto di passare.
“Dove vuoi andare Maria?”
“Mmm…non lo so Guido. Tu?”
“Sull’altalena ci siamo andati ieri. Vuoi che andiamo al Cristo Nero?”
“No, lo sai. La mamma non vuole che ci andiamo da soli. Dobbiamo attraversare quel pezzo di strada con le automobili.”
“Maria…”
“Che c’è?”
“Ti ricordi dei respiri che sentivi la notte? Quando restavamo svegli perché avevi la febbre alta…”
“Sì. Mi facevano una paura.”
“Andiamo a vedere chi c’è in quella casa?”
“No! Noi siamo angeli! Non dobbiamo essere curiosi”
“Maria, fammi vedere dove hai le ali. Non le hai!” risi “Siamo bambini, non angeli.”
“Ma la mamma…”
“Alla mamma non lo diremo. Andiamo a dare una sbirciatina, poi torniamo a casa. Nessuno lo saprà mai”
“Ma…”
“Non ti accadrà nulla, promesso. Ti terrò per mano.”
“Andiamo, diamo un’occhiata e torniamo a casa.”
Diedi un bacio sulla guancia a Maria. Era davvero una bambina carina, coi calzettoni a righine beige e la gonna a pieghe rossa. Le strinsi la mano più forte che potessi e c’incamminammo. La salita sembrava lunghissima. Era un sacco di tempo che desideravo scoprire a chi appartenesse quel respiro da animale notturno.
“Mamma andiamo un pochino in paese.”
“Guido i compiti sono stati fatti?”
“Certo mamma!”
“Tutti? Sicuro?”
“Sicurissimo.”
“Mi raccomando. Non cacciatevi nei guai. E bada a tua sorella.”
“Promesso” le diedi un bacio e aggiunsi “Sarà bellissima la tua sposa!”
“Mamma” s’intromise Maria “quando divento grande ne farai uno così bello anche per me?”
“No Maria” sorrise lei “quando sarai grande te ne farò uno molto più bello di questo. E ora angeli miei, andate. Vostro padre torna per le sette e a quell’ora dovete essere a casa. Non voglio lo facciate gridare.”
Io e Maria passeggiavamo tenendoci stretta la mano. Le stradine erano strettissime, solo in alcune passavano le auto. E da quelle avevamo il divieto di passare.
“Dove vuoi andare Maria?”
“Mmm…non lo so Guido. Tu?”
“Sull’altalena ci siamo andati ieri. Vuoi che andiamo al Cristo Nero?”
“No, lo sai. La mamma non vuole che ci andiamo da soli. Dobbiamo attraversare quel pezzo di strada con le automobili.”
“Maria…”
“Che c’è?”
“Ti ricordi dei respiri che sentivi la notte? Quando restavamo svegli perché avevi la febbre alta…”
“Sì. Mi facevano una paura.”
“Andiamo a vedere chi c’è in quella casa?”
“No! Noi siamo angeli! Non dobbiamo essere curiosi”
“Maria, fammi vedere dove hai le ali. Non le hai!” risi “Siamo bambini, non angeli.”
“Ma la mamma…”
“Alla mamma non lo diremo. Andiamo a dare una sbirciatina, poi torniamo a casa. Nessuno lo saprà mai”
“Ma…”
“Non ti accadrà nulla, promesso. Ti terrò per mano.”
“Andiamo, diamo un’occhiata e torniamo a casa.”
Diedi un bacio sulla guancia a Maria. Era davvero una bambina carina, coi calzettoni a righine beige e la gonna a pieghe rossa. Le strinsi la mano più forte che potessi e c’incamminammo. La salita sembrava lunghissima. Era un sacco di tempo che desideravo scoprire a chi appartenesse quel respiro da animale notturno.
Ci trovammo dinanzi al portone. Era molto simile al nostro, perché lì tutti i portoni erano molto simili.
Accostai l’orecchio al legno, ma non si sentiva nulla. Decidemmo di bussare il cerchio d’acciaio. Un paio di colpi. Attendemmo un attimo, ma non arrivò nessuno ad aprirci.
“Maria entriamo?”
“Non si entra in casa d’altri.”
“Beh, ma magari non ci ha sentiti! Anche la signora Tomasa, che ci porta le angurie, spesso bussa ed entra senza che noi le diciamo nulla.”
“Ah, già. Va bene, entriamo.”
Aprii la porta lentamente. Davanti a noi c’era una stanza enorme.
“È permesso?”
Nessuno rispose.
“Ce ne andiamo?”
“No, Maria. Ormai siamo qui. Dai, due minuti soli. Guarda che casa grande.”
Davanti ai nostri occhi c’era una solitaria distesa di piastrelle. A casa nostra non c’era uno spazio così vasto senza mobili. Lo attraversammo per intero, c’era un arco in fondo.
Oltre l’arco vedemmo una libreria gigantesca. Per la maggior parte sembravano libri medici, alcuni erano religiosi.
“Il medico del paese non abita qui” disse Maria.
“Sarà un forestiero, venuto qui per studiare.”
Svoltammo a sinistra. La stanza era maestosa. C’era un’immensa vasca da bagno rotonda con delle statue attorno. Una testa calva sbucava dall’acqua.
“Chi siete?” chiese senza voltarsi.
“Noi signore abbiamo bussato, chiesto permesso. Siamo Guido e Maria. Abitiamo qui vicino, volevamo conoscerla.”
Si voltò. Aveva gli occhi rossi infuocati di un lupo. Prese l’asciugamano dal bordo della vasca e uscì dall’acqua coprendosi.
“Non ho spesso visite e mai da bambini.”
Prese un bastone da terra. Si poggiava a quello, per venirci incontro.
“Allora noi ce ne andiamo a casa. Sarà quasi ora di cena.”
“No, ma che dite? Sono le cinque. Restate qui.”
“Noi, signore, andremmo.”
“Vi ho detto di rimanere!”
“Maria corri più forte che puoi!”
Ci mettemmo a correre. Via dalla stanza da bagno, verso la stanza della biblioteca. Il battere del suo bastone sul pavimento ci perseguitava. come il “toc” di un orologio a pendolo. In prossimità dell’arco una cancellata di ferro scese veloce dal soffitto. Ci girammo. Un’altra scese automaticamente a bloccarci in quello spazio. Una terza scese a dividerci.
Eravamo in trappola.
Il grassone venne verso di noi. Era tutto sudato. Si toccava la gamba dolente. Correndo gli era caduto l’asciugamano e ora aveva in brutta mostra la sua piccola appendice moscia.
Aveva il respiro affannoso che avevamo sentito quella notte.
“Maria” le disse pacatamente, cercando di riprendere fiato “Sai, le brave bambine col nome della santissima non devono guardare gli uomini nudi. Ora sarò costretto a punirti.”
“Lasciala stare!”. Dalla mia gabbia non potevo aiutarla.
“Guido” piangeva “ho paura. Aiutami Guido!”
Lui si avvicinò alla libreria. Sul ripiano in alto c’erano, degli oggetti strani. Ne scelse due.
“Lasciala o te la faccio pagare.”
“Stai buono, che poi ne avrò anche per te.”
Maria gridava fortissimo mentre quell’uomo le si avvicinava. Sentivo le sue unghie che graffiavano le sbarre. Lui rideva. Le si avvicinava. La prese. La voltò verso di lui.
“Guarda i miei occhi, perché non li vedrai mai più.”
La tramortì con un colpo secco, alla nuca. Era stesa incosciente a terra.
Con una strana pinza, le tenne aperte le palpebre, per poi estrarle i bulbi oculari. Se li mise in una mano, e cominciò a farli girare nel palmo della mano.
Ripose gli strumenti al loro posto. Le incise il torace col bisturi, poi, con una piccola sega andò più in profondità. Le aprì il torace ed estrasse il cuore.
I miei occhi avevano visto ogni cosa. Le mie orecchie avevano sentito ogni grido. Ma la mia lingua, i miei muscoli erano impietriti. Non ero riuscito a salvare la mia sorellina. E sapevo che ora sarebbe stato il mio turno.
“Visto ragazzino cosa hai fatto accadere a tua sorella? Ma la tua pena sarà certamente peggiore.”
Aprì la gabbia. Ero paralizzato. Dicevo alle mie gambe di muoversi, ma non ci riuscivo.
Lasciò i bulbi in una ciotola. Aprì la gabbia. Col suo bastone mi diede una botta all’altezza delle ginocchia. Prese dei lacci di nylon. Mi legò le braccia strette al corpo. Poi le gambe strette a una tavola, con dei lacci emostatici. Mi aprì a forza la bocca. Mi diede una cosa amara da ingurgitare, che mi stordì. Mi tenne la nuca appoggiata al lettino e mi sussurrò:
“Hanno già sentito troppe grida. Ora non sentiranno nulla ragazzino” e, con un punteruolo, mi perforò i timpani, rendendomi sordo.
Il dolore fu talmente atroce che svenni. Mi risvegliai imbrattato di sangue. Non capivo nulla. Iniziai a piangere. Sentivo le lacrime bagnarmi la faccia, la maglietta.
Mi guardai più in basso. Ero incapace di muovermi. Avevo degli aghi nelle braccia. Le gambe ridotte a moncherini erano state fasciate.
Voi non potete capire i dolori. Non potete sapere cosa vuol dire gridare mentre ti privano di un arto e non sentire la tua voce, nelle tue orecchie. O se lo sapete, lo avete vissuto solo negli incubi.
Mi tenne con sé, perché voleva scrivessi la nostra storia. Perché il mondo sapesse.
Qualcuno mi aiuti. Dica ai miei genitori che ci ha visti vent’anni fa, investiti da un’auto pirata.Accostai l’orecchio al legno, ma non si sentiva nulla. Decidemmo di bussare il cerchio d’acciaio. Un paio di colpi. Attendemmo un attimo, ma non arrivò nessuno ad aprirci.
“Maria entriamo?”
“Non si entra in casa d’altri.”
“Beh, ma magari non ci ha sentiti! Anche la signora Tomasa, che ci porta le angurie, spesso bussa ed entra senza che noi le diciamo nulla.”
“Ah, già. Va bene, entriamo.”
Aprii la porta lentamente. Davanti a noi c’era una stanza enorme.
“È permesso?”
Nessuno rispose.
“Ce ne andiamo?”
“No, Maria. Ormai siamo qui. Dai, due minuti soli. Guarda che casa grande.”
Davanti ai nostri occhi c’era una solitaria distesa di piastrelle. A casa nostra non c’era uno spazio così vasto senza mobili. Lo attraversammo per intero, c’era un arco in fondo.
Oltre l’arco vedemmo una libreria gigantesca. Per la maggior parte sembravano libri medici, alcuni erano religiosi.
“Il medico del paese non abita qui” disse Maria.
“Sarà un forestiero, venuto qui per studiare.”
Svoltammo a sinistra. La stanza era maestosa. C’era un’immensa vasca da bagno rotonda con delle statue attorno. Una testa calva sbucava dall’acqua.
“Chi siete?” chiese senza voltarsi.
“Noi signore abbiamo bussato, chiesto permesso. Siamo Guido e Maria. Abitiamo qui vicino, volevamo conoscerla.”
Si voltò. Aveva gli occhi rossi infuocati di un lupo. Prese l’asciugamano dal bordo della vasca e uscì dall’acqua coprendosi.
“Non ho spesso visite e mai da bambini.”
Prese un bastone da terra. Si poggiava a quello, per venirci incontro.
“Allora noi ce ne andiamo a casa. Sarà quasi ora di cena.”
“No, ma che dite? Sono le cinque. Restate qui.”
“Noi, signore, andremmo.”
“Vi ho detto di rimanere!”
“Maria corri più forte che puoi!”
Ci mettemmo a correre. Via dalla stanza da bagno, verso la stanza della biblioteca. Il battere del suo bastone sul pavimento ci perseguitava. come il “toc” di un orologio a pendolo. In prossimità dell’arco una cancellata di ferro scese veloce dal soffitto. Ci girammo. Un’altra scese automaticamente a bloccarci in quello spazio. Una terza scese a dividerci.
Eravamo in trappola.
Il grassone venne verso di noi. Era tutto sudato. Si toccava la gamba dolente. Correndo gli era caduto l’asciugamano e ora aveva in brutta mostra la sua piccola appendice moscia.
Aveva il respiro affannoso che avevamo sentito quella notte.
“Maria” le disse pacatamente, cercando di riprendere fiato “Sai, le brave bambine col nome della santissima non devono guardare gli uomini nudi. Ora sarò costretto a punirti.”
“Lasciala stare!”. Dalla mia gabbia non potevo aiutarla.
“Guido” piangeva “ho paura. Aiutami Guido!”
Lui si avvicinò alla libreria. Sul ripiano in alto c’erano, degli oggetti strani. Ne scelse due.
“Lasciala o te la faccio pagare.”
“Stai buono, che poi ne avrò anche per te.”
Maria gridava fortissimo mentre quell’uomo le si avvicinava. Sentivo le sue unghie che graffiavano le sbarre. Lui rideva. Le si avvicinava. La prese. La voltò verso di lui.
“Guarda i miei occhi, perché non li vedrai mai più.”
La tramortì con un colpo secco, alla nuca. Era stesa incosciente a terra.
Con una strana pinza, le tenne aperte le palpebre, per poi estrarle i bulbi oculari. Se li mise in una mano, e cominciò a farli girare nel palmo della mano.
Ripose gli strumenti al loro posto. Le incise il torace col bisturi, poi, con una piccola sega andò più in profondità. Le aprì il torace ed estrasse il cuore.
I miei occhi avevano visto ogni cosa. Le mie orecchie avevano sentito ogni grido. Ma la mia lingua, i miei muscoli erano impietriti. Non ero riuscito a salvare la mia sorellina. E sapevo che ora sarebbe stato il mio turno.
“Visto ragazzino cosa hai fatto accadere a tua sorella? Ma la tua pena sarà certamente peggiore.”
Aprì la gabbia. Ero paralizzato. Dicevo alle mie gambe di muoversi, ma non ci riuscivo.
Lasciò i bulbi in una ciotola. Aprì la gabbia. Col suo bastone mi diede una botta all’altezza delle ginocchia. Prese dei lacci di nylon. Mi legò le braccia strette al corpo. Poi le gambe strette a una tavola, con dei lacci emostatici. Mi aprì a forza la bocca. Mi diede una cosa amara da ingurgitare, che mi stordì. Mi tenne la nuca appoggiata al lettino e mi sussurrò:
“Hanno già sentito troppe grida. Ora non sentiranno nulla ragazzino” e, con un punteruolo, mi perforò i timpani, rendendomi sordo.
Il dolore fu talmente atroce che svenni. Mi risvegliai imbrattato di sangue. Non capivo nulla. Iniziai a piangere. Sentivo le lacrime bagnarmi la faccia, la maglietta.
Mi guardai più in basso. Ero incapace di muovermi. Avevo degli aghi nelle braccia. Le gambe ridotte a moncherini erano state fasciate.
Voi non potete capire i dolori. Non potete sapere cosa vuol dire gridare mentre ti privano di un arto e non sentire la tua voce, nelle tue orecchie. O se lo sapete, lo avete vissuto solo negli incubi.
Mi tenne con sé, perché voleva scrivessi la nostra storia. Perché il mondo sapesse.
Perché non voglio conoscano la realtà.
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