DIARY OF LONDON-PART 4
domenica 6 Luglio 08
(Covent Garden, Trafalgar Square, National Gallery)
(Covent Garden, Trafalgar Square, National Gallery)
Il tempo è sempre brutto. Non è che piova granché, ma piove. Le previsioni danno sole nel pomeriggio, ma non è un sole che scalda.
Di nuovo stazione. Riporta l’auto a casa. Torna. Facciamo i biglietti. Solito treno entro i tre minuti che perdiamo. Prendiamo quello successivo. Solito quarto d’ora di treno. Mangiamo alla stazione. Io prendo un panino con bacon, salsiccia e insalata e una coca cola.
Mio zio ci spiega come dovremo fare l’indomani a guardare sul display il treno che porta ad East Croydon. Tanto l’indomani, nel caos generale, lo sbaglieremo.
Aspettiamo in stazione che spiova un po’. Prendiamo un autobus, scendiamo a COVENT GARDEN. Essere lì in mezzo alla gente, a piedi, tra i mercatini, i fiori, gli artisti di strada, mi fa sentire più coinvolta, più presente, più viva rispetto all’esperienza avuta il giorno prima, in cui mi sentivo solamente una spettatrice dietro un vetro.
Ci sono due tipi che prendono al volo clavette lanciate da una bimba, stando in equilibrio su un trabicolo sorretto da una ruota. Uno dei due inizia a spogliarsi, sfida l’altro (meno dotato nel fisico) a fare lo stesso e l’altro resta con indosso solo un tutù fuxia. I due scatenano l’ilarità generale. Mio zio dice fanno lo stesso spettacolo ogni giorno, ma per m è una novità.
C’è un tipo di colore, vestito di pelle nera, che imita le gesta di Matrix. Ha degli occhi incendiari e quando mi fissa ho quasi paura.
C’è un altro uomo che parla francese, e sembra pazzo. Lancia in aria dei coltelli, come per gioco.
C’è uno che canta qualcosa che assomiglia a una canzone lirica, ma quasi nessuno lo ascolta.
Lasciamo Covent Garden e prendiamo un taxi. Questi macchinoni neri, con lo sportello al contrario e la salita di difficile impatto, se hai problemi articolari. L’uomo coi capelli bianchi e la coda ci conduce a TRAFALGAR SQUARE. Facciamo un paio di foto, o forse dieci, e, non vedendo l’ingresso, ci facciamo un giro lunghissimo per trovare l’accesso senza scale alla NATIONAL GALLERY. Scelgo le, poche, stanze da farmi. Guardiamo Botticelli, Caravaggio, Rembrandt e poi, finalmente, passiamo agli impressionisti che sono i miei preferiti.
Mio zio mi tratta come una piccola studentessa e mi fa leggere le didascalie.
“Devo dire che ti sei guadagnata uno schifoso due e mezzo in lettura”
Rido. Lo ringrazio. Decido di riprovarci nella Room 45, quella in cui c’è Van Gogh. Leggo quello che hanno scritto accanto al “La sedia Di Vincent”
“Allora? Come sono andata?”
“Lascia perdere. Peggio di prima”
Ho riso. Mio zio fa lo stronzo, ma è divertente. Forse mi piace perché anche io sono stronza a volte ed è a lui, probabilmente, che devo il mio lato sarcastico che apprezza. Mi ha dato un voto più basso, è vero! Ma c’è da tener conto del mio coinvolgimento emotivo con l’opera.
Ad ogni stanza mi fermo. Mi siedo sui tavolini di legno nel mezzo e mi perdo assorta in una tela a caso, per far riposare gambe e schiena. Non sopporto più i dolori alla schiena. Deve essere stata la caduta di due settimane fa. Deve essere la mia andatura claudicante.
Mio zio si siede due minuti con me. Notiamo come le persone messa a guardiano in ogni stanza si spacchino la schiena dal lavoro. Si limitano a stare sedute. E guardare. Cazzo che lavoro stremante! Io non ce la faccio più. Prendiamo l’ascensore.
Andiamo a fare pipì. Ci ritroviamo nella hall, nella stanza dei pc. I miei genitori proseguono il giro. Io e mio zio ci confrontiamo sui vari quadri visti, zoomandone i particolari. Ci sfidiamo su quale sia l’artista con maggior numero di opere. Litighiamo nuovamente su quale sia il migliore.
Ora ho fame. Un panino vaga solitario nella mia pancia.
Mio zio si offre di prendermi qualcosa: gli chiedo una cioccolata, ma torna senza. Non ne hanno.
“Come sarebbe a dire -non ne hanno-? E uno cosa beve?”
“Caffè lungo, the”
“Volevo la cioccolata”
“Fai un reclamo al direttore, no?”
“Mmm… potrei dirgli…”
“Dai, sforzati. Vediamo cosa gli chiederesti”
“Excuse me Sir…Why can I have a chocolate…”“No, no! Dovresti dirgli…Excuse me… Why can’t I drink any blooding fucking chocolate in your fucking museum?”“Ma blood non significa sangue?”
“Sì, ma è rafforzativo”
Tornata a casa, ho scritto undici bigliettini, da attaccare agli undici portachiavi colorati della National Gallery acquistati per I miei colleghi/college/capo _ROOM 45-YOU CAN’T DRINK ANY BLOODING FUCKING CHOCOLATE-LOVE, ME_
Solo un collega è rimasto shockato come volevo. Gli altri non sanno l’inglese, credo. Si sono limitati a sorridere.
Di nuovo stazione. Riporta l’auto a casa. Torna. Facciamo i biglietti. Solito treno entro i tre minuti che perdiamo. Prendiamo quello successivo. Solito quarto d’ora di treno. Mangiamo alla stazione. Io prendo un panino con bacon, salsiccia e insalata e una coca cola.
Mio zio ci spiega come dovremo fare l’indomani a guardare sul display il treno che porta ad East Croydon. Tanto l’indomani, nel caos generale, lo sbaglieremo.
Aspettiamo in stazione che spiova un po’. Prendiamo un autobus, scendiamo a COVENT GARDEN. Essere lì in mezzo alla gente, a piedi, tra i mercatini, i fiori, gli artisti di strada, mi fa sentire più coinvolta, più presente, più viva rispetto all’esperienza avuta il giorno prima, in cui mi sentivo solamente una spettatrice dietro un vetro.
Ci sono due tipi che prendono al volo clavette lanciate da una bimba, stando in equilibrio su un trabicolo sorretto da una ruota. Uno dei due inizia a spogliarsi, sfida l’altro (meno dotato nel fisico) a fare lo stesso e l’altro resta con indosso solo un tutù fuxia. I due scatenano l’ilarità generale. Mio zio dice fanno lo stesso spettacolo ogni giorno, ma per m è una novità.
C’è un tipo di colore, vestito di pelle nera, che imita le gesta di Matrix. Ha degli occhi incendiari e quando mi fissa ho quasi paura.
C’è un altro uomo che parla francese, e sembra pazzo. Lancia in aria dei coltelli, come per gioco.
C’è uno che canta qualcosa che assomiglia a una canzone lirica, ma quasi nessuno lo ascolta.
Lasciamo Covent Garden e prendiamo un taxi. Questi macchinoni neri, con lo sportello al contrario e la salita di difficile impatto, se hai problemi articolari. L’uomo coi capelli bianchi e la coda ci conduce a TRAFALGAR SQUARE. Facciamo un paio di foto, o forse dieci, e, non vedendo l’ingresso, ci facciamo un giro lunghissimo per trovare l’accesso senza scale alla NATIONAL GALLERY. Scelgo le, poche, stanze da farmi. Guardiamo Botticelli, Caravaggio, Rembrandt e poi, finalmente, passiamo agli impressionisti che sono i miei preferiti.
Mio zio mi tratta come una piccola studentessa e mi fa leggere le didascalie.
“Devo dire che ti sei guadagnata uno schifoso due e mezzo in lettura”
Rido. Lo ringrazio. Decido di riprovarci nella Room 45, quella in cui c’è Van Gogh. Leggo quello che hanno scritto accanto al “La sedia Di Vincent”
“Allora? Come sono andata?”
“Lascia perdere. Peggio di prima”
Ho riso. Mio zio fa lo stronzo, ma è divertente. Forse mi piace perché anche io sono stronza a volte ed è a lui, probabilmente, che devo il mio lato sarcastico che apprezza. Mi ha dato un voto più basso, è vero! Ma c’è da tener conto del mio coinvolgimento emotivo con l’opera.
Ad ogni stanza mi fermo. Mi siedo sui tavolini di legno nel mezzo e mi perdo assorta in una tela a caso, per far riposare gambe e schiena. Non sopporto più i dolori alla schiena. Deve essere stata la caduta di due settimane fa. Deve essere la mia andatura claudicante.
Mio zio si siede due minuti con me. Notiamo come le persone messa a guardiano in ogni stanza si spacchino la schiena dal lavoro. Si limitano a stare sedute. E guardare. Cazzo che lavoro stremante! Io non ce la faccio più. Prendiamo l’ascensore.
Andiamo a fare pipì. Ci ritroviamo nella hall, nella stanza dei pc. I miei genitori proseguono il giro. Io e mio zio ci confrontiamo sui vari quadri visti, zoomandone i particolari. Ci sfidiamo su quale sia l’artista con maggior numero di opere. Litighiamo nuovamente su quale sia il migliore.
Ora ho fame. Un panino vaga solitario nella mia pancia.
Mio zio si offre di prendermi qualcosa: gli chiedo una cioccolata, ma torna senza. Non ne hanno.
“Come sarebbe a dire -non ne hanno-? E uno cosa beve?”
“Caffè lungo, the”
“Volevo la cioccolata”
“Fai un reclamo al direttore, no?”
“Mmm… potrei dirgli…”
“Dai, sforzati. Vediamo cosa gli chiederesti”
“Excuse me Sir…Why can I have a chocolate…”“No, no! Dovresti dirgli…Excuse me… Why can’t I drink any blooding fucking chocolate in your fucking museum?”“Ma blood non significa sangue?”
“Sì, ma è rafforzativo”
Tornata a casa, ho scritto undici bigliettini, da attaccare agli undici portachiavi colorati della National Gallery acquistati per I miei colleghi/college/capo _ROOM 45-YOU CAN’T DRINK ANY BLOODING FUCKING CHOCOLATE-LOVE, ME_
Solo un collega è rimasto shockato come volevo. Gli altri non sanno l’inglese, credo. Si sono limitati a sorridere.
(song: Hight and Dry - Radiohead)
1 commento:
#1 23 Luglio 2008 - 23:25
Covent Garden Trafalgar Square e tuo zio sembra uno con il senso dell'umorismo...
meglio non tradurre i vari fucking e lasciarli come intercalare ihhhh
notte
goodnightmoon88
#2 24 Luglio 2008 - 00:19
[che meraviglia...sai che potresti scrivere una guida e sai che sono seria seria...te la dedico myangel tutta tutta...dalla prima all'ultima parola...e compra la valduga...credo ti possa davvero piacere]
Morfea77
#3 24 Luglio 2008 - 16:51
chiudo gli occhi e mi ritrovo a londra!!!!
AlmostMe
#4 25 Luglio 2008 - 06:16
yeah! sembra troppo di essere là :)))
livido
#5 25 Luglio 2008 - 18:08
ciao come va????tutto bene???allora scorre bene la tua vita?
AlmostMe
#6 25 Luglio 2008 - 19:23
e si vedere londra e la tua descrizone è perfetta per tornare ad un certo passato...senti ..sta succedendo qualche cosa di bello li da te???novità??grandi grandi???:)sai che tifo per te!
AlmostMe
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