DIARY OF LONDON-PART 5
Lunedì 7 Luglio 2008
(Harrods)
Mio zio lunedì mattina doveva lavorare. Io non l’ho sentito alzarsi, né tantomeno venire nella camera dove dormivo io a prendere una camicia tra quelle disposte, nell’armadio di fronte al letto, in ordine cromatico. Spettacolari dal blu al bianco passando per le varie gradazioni di azzurro scuro e azzurro più chiaro.
Il fatto è che a Londra, per la precisione ad East Croydon, andavo a letto talmente stanca e dolorante che il sonno m’abbracciava per l’intera notte catapultandomi in un paradiso di relax da cui la mattina facevo fatica da uscire.
Credo d’aver dormito fino alle undici. E la sera prima non avevo fatto nulla, come al solito.
Terminata la colazione è passato mio zio a prenderci. Saranno state le undici:quaranta e ci ha lasciati in stazione. Come al solito, biglietto, discesina a piedi vietato correre (con immagine d’omino che cade, ma loro corrono lo stesso), treno, Victoria Station, pullman e abbiamo raggiunto Harrods.
Quel giorno pioveva davvero un sacco, a quanto ci disse poi mio zio. E noi, stando in quel centro commerciale per quasi quattro ore, abbiamo trascorso incolumi gran parte dell’acquazzone.
Entrati, un ragazzo di colore con la divisa, mi indica sulla piantina che tengo tra le mani, dove si trova la zona in cui possiamo mangiare. Ogni pizzeria, creperia, ristorante,bar charcuterie, sushi bar hanno degli sgabellini tutt’attorno, per far accomodare le persone fianco a fianco a semi-cerchio. Mia madre decide di non volersi mischiare al resto del popolo, anzi non ha nemmeno più voglia di mangiare. Io e mio padre ci arrangiamo in un altro modo: opto per un muffin al cioccolato e lui per una focaccia alle cipolle e li mangiamo lì! In piedi, appoggiati ad un banchetto.
Ci raggiunge una guardia, che, con fare gentile, ci chiede di uscire fuori a mangiare. La mia riavvolge il nastro dei ricordi e si ferma a otto anni fa. Stessa situazione. Io e un amico che pacatamente fumiamo una Marlboro all’interno del Louvre, accanto a una pianta. Un gruppetto di scolari italiani, che, vedendoci, ha la nostra stessa geniale idea. La guardia che s’avvicina e che, con modi gentili, ci chiede se possiamo uscire.
I prezzi sono limitativi per le mie tasche. Ho guardato un po’ di women’s shoes e womenswear al first floor. Sono andata al quarto per guardare un po’ di women’s fashion. Infine ho deciso fosse meglio andare diretta al ground floor reparto 28 Harrods Souvenirs e comprare qualche posacenere a forma di zampetta di cane, a forma di foglia o lampada d’aladino, borsellino, tazzinine da caffè, due tazze da the, tre confezioni di the, una borsa per mia sorella, un beauty per l’altra, e siamo andati ad ammazzare il conto alla cassa.
Pioveva fortissimo quando siamo usciti. Eppure c’era un ciclista che correva lo stesso come nulla fosse. E ragazzi vestiti di niente che passeggiavano.
Ci siamo rintanati radenti al muro, sotto una tettoia, io accanto a due ragazzetti inglesi che ridevano. Credo avessi un aspetto orribile. Immaginami coi capelli al vento, il kway nero sopra due felpe e la faccia stanca… “Orrible!”
Appena ha smesso un po’ di piovere, abbiamo attraversato la strada e siamo andati a berci una tazza di the. Stare in piedi quattro ore è stato un record per me. Posso capire chi sentendolo dire strabuzza gli occhi, chi non capisce. Dodici anni fa avrei reagito in modo identico. Ma ora sono dall’altra parte della barricata, capisco molte più cose e ho imparato a non incazzarmi, troppo, se gli altri non mi capiscono.
Dopo esserci rifocillati un po’, abbiamo ripreso l’autobus per Victoria Street. Siamo passati da SLOANE STREET, la via dei negozi d’abbigliamento, dove l’unica nota stonata è una gigantografia del Bria, che mi fa vergognare d’essere italiana.
Scesi a Victoria Street c’è un casino. Un casino di gente ferma. Un casino di valigie a terra. Un casino di tabelloni spenti e scritte che scompaiono.
Sono entrata in un negozio che emanava un sacco di profumi diversi, provenienti da bagnoschiuma/saponi/sali da bagno. All’ingresso c’è un cartellone “FREE SEX IN THE SHOWER” e dentro di me sorrido, pensando a (…)
Una ragazza sui vent’anni mi ha sorriso:
“Hi. How are you?”“Fine”
“xxxgrdkbdvhinbdsfoiyww”
“Sorry? I don’t understand”
“htefgvdsg… buy…kiunfefgt”
“Yes, now I will wach something to buy…”Ho fatto una gran figura di merda. Mi sono resa conto di non saper nulla d’inglese!
Ero lì dentro, con mia madre, ad annusare i vari pezzi di sapone. Ognuno aveva una frase accanto, un aneddoto. Mi sembra che accanto ad uno ci fosse una curiosità circa Napoleone, che aveva chiesto alla sua amata di non lavarsi, che sarebbe tornato. Ma che se avesse conosciuto quel tipo di sapone, avrebbe cambiato idea.
Mia madre mi dice che forse è meglio che usciamo dal negozio, e cerchiamo mio padre.
Mentre esco c’è della gente che corre veloce nella mia direzione, accanto alla gente ferma nella direzione opposta.
Un uomo sbatte involontariamente la custodia nera dura della sua ventiquattrore sul faccino di un bimbo biondo seduto a terra. Si ferma. Gli dà una carezzina. Il bimbo scoppia a piangere. La madre degenere lo prende in braccio.
Non badiamo alla fila ferma e procediamo verso un treno. Non sono certa sia quello giusto. Non ho controllato il terzo tabellone da destra, ma non mi va di tornare indietro, voglio fidarmi di mio padre. Saliamo. Il treno straripa di persone.
Mio padre chiede a un tipo se ferma ad East Croydon (“Yes”)
io sono in piedi. Mi tengo con entrambe le mani ad una sbarra. Di solito ho sempre trovato il posto a sedere. So che da Victoria ad East Croydon sono circa venti minuti. Posso resistere.
Mio zio mi manda un sms. Gli dico ci siamo! Stiamo arrivando.
Lui si scusa. Mi dice ci sono stati dei disastri, tarderà un attimo.
Vediamo il treno passare da East Croydon, senza fermarsi.
“????!”
“Sorry…” dice l’inglese rivolgendosi a mio padre
telefono a mio zio “Ciao, vai tranquillo. Questo treno è diretto a…”
“Ma come? Cazzo dici? Passami tuo padre…”
Mio padre è incazzato nero. Nella confusione ha sbagliato a guardare il treno.
“Ciao… boh… è un diretto…abbiamo sbagliato a guardare”
“Ma cazzo…Ma come?”
Un signore che parla inglese, ma che non ha nulla a che vedere con gli inglesucci-pc-&-cellulare che ho attorno, mi spiega che, una volta fermo il treno, possiamo prenderne un altro subito che in mezz’ora ci porta ad East Croydon.
Mio padre mi ripassa il cellulare. Mio zio è incazzato.
“Aspetta un attimo” gli dico
Mi rivolgo al tipo che parla inglese “Excuse me sir can you speak with…” e gli porgo il cellulare
Lui mi dice devo mandare un sms a mio zio scrivendogli il paese che lui mi scrive sul foglio di giornale.
Fatto.
“Non so nemmeno dove cazzo sia. Lo cerco e vi vengo a prendere”
“no. Torniamo da soli, lascia. Aspettaci”
Il viaggio in piedi dura cirac un’ora, ma nemmeno lo sento. Mi spiace vedere mio padre così incazzato, mi spiace non aver controllato meglio.
Scendiamo in quel paese al confine con la costa, guardiamo i tabelloni. Il tipo non inglese che parla inglese, mi dice che se scendo le scale mi ritrovo sul binario opposto e lì c’è il treno. Mi fa segno “muoviti!” ma ho visto che c’è un ascensore.
“Thank you so much! I must take the elevator” (gli Aerosmith insegnano)
Credo di aver strutturato una frase con venti errori, ma il tipo mi comprende, mi sorride.
Scendiamo. Prendo il treno. Questo ha dei gradini altissimi e io non riesco più a stare in piedi. Mi aiuta mio padre. I sedili sono lerci, sgonfi d’imbottitura e bassissimi. Ma ci sediamo, finalmente. Mezz’ora e siamo ad East Croydon.
Percorro per l’ultima volta la salitina che conduce alla Stazione. Il nero umidiccio del corrimano mi resterà attaccato al palmo anche questa volta. Mi fermo a metà. Guardo le telecamere. Magari qualcuno mi riguarderà percorrere quella salita/discesa lentissima tenendomi al corrimano e si farà domande.
Manie di grandezza. Ma chi non le ha?
Mio zio si è rilassato. Ci viene incontro e ride.
Io sdrammatizzo: “Vabbè…abbiamo perso un’ora, ma chissenefrega, no? E’ ancora presto…”
“allora andiamo allo spagnolo?”
“ok”
Il ristorante “La Tasca” è vicino a casa. Mio zio ci lascia giù e riporta l’auto a casa. Ritorna a piedi.
Sì. E’ per me che ogni_volta_deve_prendere_l’auto.
Io ordino pesce, niente di strano: calamares, fritura mixta, langostinos (gamberoni)
In un angolodel bar/ristorante c’è della gente che balla. Il maestro non è un tipo mui caliente, anzi. Un pezzo di legno. Ci sono donne che ballano con donne, due coppie d’anziani. Una tipa che sembra la madre di Amy Winehouse.
Quest’ultima pare un bel po’ bevuta. Fa la micia in calore con due tipi che non se la filano.
Poi demorde. S’appoggia al bancone del bar e sembra punti mio padre. La guardo, ma non merita nessun giudizio da parte mia.
Magari è la sera del suo non compleanno. Magari suo figlio ha trovato lavoro oggi e vuole festeggiare. Magari ha solo voglia d’una notte d’amore romantica.
Al tavolo a fianco cantano “Happy birthday to you…” e mi viene in mente quando un paio di mesi fa, in una spaghetteria, ogni dieci minuti spegnevano la luce e mettevano il disco “tanti auguri a te… tanti auguri…” perché c’erano cinque o sei compleanni, più una coppietta che festeggiava un anno e, per finire, due miei amici a cui poi hanno urlato “nudi nudi”.
Maria Alice, la cameriera, riceve la mancia da mio zio, che dice è d’obbligo, un dieci per cento del conto.
Torniamo a casa, tra la notte illuminata. Domani si torna a casa.
(song: A Punch Up at a Wedding-Radiohead)